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sabato 24 novembre 2012

Linfield. South Belfast


"You are Now Entering Loyalist Sandy Row". Terminati i lavori di rimozione del murales lealista dedicato all’Ulster Freedom Fighters, occorre fare spazio a un nuovo murales che possa cercare di ritrarre la cultura di questa zona di Belfast in un modo più positivo e meno minaccioso. Il vecchio disegno paramilitare, sarà sostituito da un ritratto di Guglielmo III d’Orange, incorniciato dalla celebre citazione di ciò che disse ai suoi soldati la mattina della Battaglia del Boyne nel 1690. Siamo a poche decine di metri dal terreno chiamato The Meadow, il prato, situato proprio dietro all’antica filanda nella zona di Belfast sud chiamata appunto Sandy Row. Qui il Linfield FC giocò la sua prima partita nel marzo del 1886, battendo per 6-5 il Distillery, e nei mesi successivi, in cui l’Irish League non era ancora stata fondata, il club passò di successo in successo, creandosi una grande reputazione in città e una crescente popolarità nel resto del paese. Il sodalizio fu fondato nel marzo del 1886 con il nome di Linfield Athletic, ma era già da qualche mese, esattamente dall'autunno del 1885, che un tale Bob McClurg, aveva raggiunto una sorta di comunione d'intenti con alcuni colleghi di lavoro per creare una squadra, sull'onda crescente della sempre maggiore passione per il calcio. Lui era uno dei tanti operai della filanda chiamata “Linfield”, di proprietà dell’Ulster Spinning Company.

Belfast, Sandy Row, Windsor Park, Linfield. Non illudiamoci troppo, osservando quel sobrio murales del vecchio re olandese. Qui il sangue ribolle. Come tazze da thè lasciate troppo in infusione. Anche qui come per i “fratelli in blu” dei Rangers, vige la regola non scritta di non tesserare giocatori cattolici o comunque non protestanti. Anche qui ci sarebbe stato posto per i disordini creati dal caso Maurice Johnstone. Forse peggiori. Una regola rispettata negli anni in maniera molto ferrea, se si escludono alcuni giocatori che hanno giocato per veramente poco tempo nelle file dei blues, durante il periodo passato alla storia come “The Troubles”. L’eccezione di rilievo arrivò pure qua, sia chiaro, quando Dessie Gorman nel 1992 lasciò lo Shelbourne per firmare con il Linfield, spinto forse, da quel vento soffiato qualche anno prima a Glasgow e che aveva aperto crepe nell' ideologia del settarismo sportivo anche a Belfast. Ma insisto. La favoletta che il pallone unisce, da queste parti non attacca, neppure sui muri, se sotto il manifesto «Love Football, Hate Bigotry»,- ama il calcio odia la mentalità ristretta-, solo qualche anno fa scrissero «Boruc Rip», Boruc riposa in pace. Epitaffio cimiteriale destinato al portiere polacco nel periodo in cui militava al Celtic. Lo chiamavano "Il portiere Santo", The Holy Goalie, per via di quella maglietta sbattuta in faccia ai tifosi dei Gers dopo che il suo Celtic aveva vinto un derby per 3-2. C'era il volto di Wojtyla e la scritta "Dio benedica il Papa". Provocazione, insulto, non si può. Non qui. Oppure la famosa telefonata che arrivò alla sede di Belfast della BBC, in Ormeau Avenue, nel tardo pomeriggio del 21 agosto 2002: «Qui è il Loyalist Volunteer Force, se Neil Lennon stasera entrerà in campo, sarà seriamente colpito».

Una semplice partita contro Cipro. Per Neil sarebbe stata la prima partita da capitano dell’Irlanda del Nord: “Non importava che la mia famiglia non avesse nulla a che fare con gruppi estremisti, contava solo che ero cattolico, e per giunta del Celtic Glasgow”. Un eretico, insomma, dentro Windsor Park. “Della minaccia -dice Lennon- fui informato da due poliziotti: tutti sapevamo che quel colpire seriamente significava che c’erano buone possibilità di rimetterci la pelle”. “Così mi ritrovai diretto verso casa, dentro la macchina di mio padre, che conserva ancora i biglietti, inutilizzati, di quella partita”. Lennon, poi diventò allenatore del Celtic, ma quella notte chiuse la carriera internazionale: costretto dal proprio popolo, ma di fede avversa, che già l’aveva fischiato di brutto, qualche mese prima, contro la Norvegia. Com’era successo negli anni ‘80 ad Anton Rogan, pure lui difensore dei biancoverdi scozzesi.
Obbiettivamente certe cose negli anni sono un po’ migliorate, non risolte. Lecito sperarlo, impossibile crederci. Un ossimoro. Semmai il pallone può unire quando è ovale, se da oltre cent’anni la Nazionale di rugby rappresenta l’intera isola. Oppure deve prenderlo a calci quel geniaccio di George Best, protestante ma favorevole all’Irlanda unita, che mise tutti d’accordo anche al suo funerale.

Il Linfield è la faccia calcistica della Belfast lealista. Vincente, se i numeri hanno qualche riscontro obbiettivo. Quando nacque la Lega nel 1890, ne divenne parte integrante, e si aggiudicò subito i primi tre campionati, perdendo solo due partite su quaranta giocate. All'epoca il campo di casa era quello di Ulsterville Avenue, a pochi passi da Lisbon Road ma una momentanea crisi economica a metà dell'ultima decade del secolo costrinse i "Blues" a spostarsi da lì e muoversi in giro per la città, senza riuscire a stabilirsi in un luogo fisso. Nel 1895 fu preso in affitto il campo di Balmoral road ma la situazione non migliorò più di tanto perché i lavori di adattamento dell'impianto dovettero essere pagati con una parte del compenso previsto per i giocatori, e ovviamente il club dovette adattarsi per qualche anno. Almeno fino al 1904, quando venne finalmente acquistato l'attuale Windsor Park. La prima partita fu giocata nel nuovo stadio proprio contro i rivali cittadini del Glentoran, il 2 settembre 1905, anche se a quei tempi onestamente la rivalità più accesa era quella contro il Belfast Celtic. Lo stadio ridisegnato e migliorato poco dopo da Archibald Leitch, fu ultimato negli anni trenta, non subendo più grandi variazioni nel corso degli anni. In ogni caso, nonostante le iniziali precarietà di sistemazione, il Linfield, conquista il campionato nel 1895, 1898, 1902, e 1904, e l’Irish Cup nel 1895, 1898, 1899, 1902, 1904. Una litania di vittorie, lunga come il sermone di un pastore protestante. Come dire che nemmeno il vagabondaggio tra un impianto all'altro poteva fermare i "Blues" nella loro corsa verso il record assoluto di successi in Irlanda. Una continua cavalcata lungo la via dei trofei, delle coppe, dei campionati, che sono arrivati costantemente lungo tutto l'arco dell'esistenza del club. La decade di maggior gloria, a livello di Irish League, è stata quella degli anni Ottanta, con ben otto titoli in dieci stagioni. Artefice dei trionfi Roy Coyle: nome completo e esatto Robert Irvine Coyle, nato proprio a Belfast nel gennaio del 1946. Un’ala dai capelli lunghi e biondicci e dalla scorza dura, che aveva esordito come calciatore nel 1966 con il Ballymena United. Arrivò sulla panchina del Linfield nel ruolo di player manager nel 1975 e ci resterà fino al 1990, diventando il manager più vincente nella storia del club, con ben 31 competizioni vinte. Alle sue spalle, usando un termine ippico sempre molto gradito in Gran Bretagna, si posiziona a “un incollatura” David Jeffrey, l’allenatore attuale, che dal 1997 ha collezionato 30 trofei tra campionato e coppe. E c’è chi ha conosciuto entrambi. Si chiama Noel Bailie. Venticinque anni ininterrotti di grinta, al servizio del Linfield come difensore centrale. Un record straordinario con 1013 presenze con il club di Windsor Park. Ha giocato sotto la guida di quattro diversi allenatori (dai citati Roy Coyle e David Jeffrey, passando per Eric Bowyer prima e Travor Anderson poi) Bailie ha vinto 10 campionati e 7 coppe, raggiungendo la millesima apparizione il 24 aprile 2010 in un match contro il Crusaders FC. Dopo il suo addio al calcio a quaranta anni suonati, la società ha deciso di ritirare l’insolita maglia numero 11, a eterno ricordo di questo meraviglioso giocatore della storia societaria. Una squadra comunque da sempre serbatoio di stelle per la nazionale nord irlandese, e di giocatori che poi emigrarono in Inghilterra per ottenere maggiori guadagni (specialmente dagli anni Sessanta dopo la fine del salary cap). Il cielo del Linfield non ha però, mai potuto risplendere in campo europeo, dove l’atavica inferiorità delle squadre irlandesi (sia del Nord che dell'Eire) ha lasciato solo spazio a saltuarie imprese, come ad esempio quella del 1966-67, quando il Linfield Football & Athletic Club (perché le cose vanno chiamate con il suo nome completo) arrivò ai quarti di finale della Coppa dei Campioni. In un periodo dove ancora la manifestazione era vera, e non una sala giochi per grandi club economicamente potenti. In quell'occasione i "Blues" superarono i primi due turni prima di arrendersi ai bulgari del CSKA Sofia, pareggiando 2-2 all'andata con le reti di Bryan Hamilton e Shields, cedendo solo 1-0 in trasferta. Sono gli anni di Phil Scott, un abile interno velocissimo dall' ottima visione di gioco, e Sammy Pavis abatino biondo appassionato di biliardo soprannominato “Sammy Save Us”, autentica icona capace di "mandare in buca 63 palle" in una singola stagione. A cavallo fra gli anni settanta e ottanta invece non era difficile ascoltare spesso il coro “there is only one Billy Muray”, in omaggio all’istrionico attaccante, specchio di quegli anni, ma davvero flagello dei terzini avversari. Undici stagioni con il Linfield per poi trasferirsi al Ballyclare Comrades, ma lui stesso dirà che il suo cuore non ha mai perso la tonalità blu. Oppure perché no, Peter Rafferty detto “Bald Eagle” 332 partite e 42 centri. In tempi più recenti non dobbiamo scordarci di Glenn “Spike” Ferguson ingaggiato dal Glenavon nel 1998 per 55000 sterline, uno dei migliori affari mai portati a termine dalla dirigenza del Linfield. Una pioggia di goal, intensa come i dissidi di Belfast. Dissidi sono un eufemismo naturalmente, anche se il manager David Jeffrey si ostina a proclamare il desiderio dei giocatori di indossare la “famous blue shirt”, senza alcun riferimento alle diverse confessioni religiose. Per i tifosi però non è sempre così. L’episodio più recente risale al marzo di quest’anno in occasione della sentitissima sfida tra il Linfield e il Derry City, valida per il ritorno dei quarti di finale della Setanta Cup. La partita si è disputata al Brandywell Stadium di Londonderry, la città del tristemente famoso Bloody Sunday. Durante la gara si è potuto assistere agli ormai consueti cori settari da parte di entrambe le tifoserie. Una tensione altissima all’interno dello stadio al punto che l’intervento delle forze dell’ordine a fine gara si è reso necessario, per impedire uno scontro che sembrava purtroppo davvero inevitabile. Alla fine, però, quasi una gita del dopolavoro in confronto a episodi ben più gravi successi in passato. Il culmine fu toccato forse in occasione del Boxing Day del 1948 disputatosi a Windsor Park tra il Linfield e il Belfast Celtic. Un finale drammatico sfociato con l’invasione di campo seguita da uno scontro tra le due fazioni, nel quale l'attaccante protestante del Belfast Celtic, Jimmy Jones, ne uscì con una gamba rotta. L'anno successivo la federazione prese una decisione radicale e controversa: il Belfast Celtic doveva sparire da tutte le competizioni nordirlandesi, per sempre. Nel 1997, il match contro il Coleraine dovette essere sospeso dopo che un tifoso (tifoso?) scagliò due bottiglie sul terreno di gioco a seguito dell'espulsione di due giocatori del Linfield. Vietata nel 2005 la trasferta dei sostenitori dei blues al The Oval per la trasferta contro i rivali del Glenavon a causa delle minacce di agguati mortali ricevute dai tifosi di “Lurgan”. Ordine eseguito, con il sollievo di molti. La risposta indiretta: uno sputo, una birra, e un God Save the Queen. Identità. Perché qui il muro non è solo fisico. E’ psicologico, sociale, ti insegna a odiare quelli dell’altra comunità da quando non sai ancora parlare, ti dice che cosa puoi fare e cosa no, dove puoi andare e dove non mettere piede se vuoi vivere. Oppure, se ve la sentite, seguite il motto del Linfield: “Audaces fortuna ìuvat”: La fortuna aiuta gli audaci. Fate voi.


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by Sir Simon


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domenica 11 novembre 2012

11 Novembre: Remembrance Day


They went with songs to the battle, they were young.
Straight of limb, true of eyes, steady and aglow.
They were staunch to the end against odds uncounted,
They fell with their faces to the foe.
They shall grow not old, as we that are left grow old:
Age shall not weary them, nor the years condemn.
At the going down of the sun and in the morning,
We will remember them.
Lest we forget.

Please fall silent at 11am today to honour and remember the fallen.



L'Ultima Preghiera dei Pilgrims


Un aneddoto e un giuramento. Si potrebbe incominciare così il racconto sul Plymouth Argyle. Solo che l’aneddoto in rapporto al giuramento ribalta completamente la logica temporale, aprendo tra loro un varco distante un oceano e cinque secoli di storia. Ma se dobbiamo partire facciamolo con l’aneddoto. Il 14 aprile 1984 è una bella giornata di sole su Birmingham. Non si poteva chiedere di meglio per una semifinale di FA Cup. Ai tornelli d’ingresso dell’ Villa Park, si presenta zoppicando, Micheal Foot, settanta primavere, rosetta verde appuntata al montgomery, e l’inseparabile bastone. C’è un problema però. Lui può entrare ma il bastone no. Lo steward è irremovibile: “Non m’interessa chi è lei signore, non può portare il suo bastone sulle gradinate”. Fortunatamente l’arrivo di un altro inserviente risolve la penosa situazione. “Prego signore venga con me, vedo se posso farla entrare in una zona diversa”. D’altro canto sarebbe stata una vera e propria disdetta non poter assistere alla partita più importante della storia dei “Pilgrims”, quella che avrebbe deciso chi, fra Plymouth e Watford sarebbe andato a Wembley a giocarsi la finale di coppa d’Inghilterra. Plymouth, la bella città portuale del Devon, terra di marinai, pirati, e audaci ricercatori, era letteralmente impazzita. La sua squadra di terza divisione allenata dal gagliardo John Hore aveva raggiunto un traguardo impensabile.

In nome di Dio, Amen. Eccolo il giuramento: “Noi qui sottoscritti, leali sudditi del nostro riverito Sovrano Giacomo, per grazia divina Re di Gran Bretagna e Irlanda, avendo intrapreso un viaggio per fondare la prima colonia della Virginia del Nord, stringiamo un patto solenne di costituire una civile società che miri al miglior ordinamento e la migliore conservazione della nostra comunità, e per il perseguimento di fini che siano giusti ed eguali per tutti.” E’ l’11 novembre 1620. Nella baia di Cape Cod, aveva appena gettato l’ancora un piccolo galeone a tre alberi battente bandiera inglese, e dal nome beneagurante: Mayflower. Fiore di maggio. La nave era partita due mesi prima dal porto di Plymouth guidata dal capitano Christopher Jones, John Alden organizzatore del viaggio e William Bradford, futuro primo governatore della nuova colonia. A bordo un totale di 102 passeggeri, in larga maggioranza “padri pellegrini”, ovvero, più concretamente riformisti puritani separatisti dalla chiesa anglicana, formatisi a Nottingham nel 1606 e subito accusati di tradimento. I “Pilgrims”.

Ed è per questa vicenda che il nomignolo sarà associato ai giocatori del Plymouth Argyle. Ma adesso la macchina del tempo è nuovamente ripartita, perché al Villa Park si è già incominciato a giocare. I tifosi arrivati da Plymouth, che avevano intasato e colorato di biancoverde l’autostrada per Birmingham erano quasi in ventimila. Negli occhi ancora quel flash. La fotografia del 14 marzo nel replay del sesto turno a Derby, quando i “Pilgrims” espugnarono il Baseball Ground per 1-0 conquistando l’inaspettata semifinale. Che serata. La notte fredda del Derbyshire, i riflettori accesi velati dalla foschia, il campo pesante, “loro” gli altri, con la maglia bianca col caprone sul petto che spingono minacciosi a folate sempre più intense, verso la porta difesa con piglio da Geoff Crudigngton. Ma il Plymouth non ci sta a fare la vittima designata, già nella prima gara aveva dimostrato che poteva giocare alla pari con il Derby County. In fondo nel turno precedente erano stati capaci di battere un'altra grande in trasferta, avevano sconfitto al The Hawthorns il WBA per gentile concessione di Tommy Tynan. E allora, verso la fine del primo tempo ecco lo scatto. Un goal bellissimo e rocambolesco, arrivato direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Una parabola infinita, un colpo da biliardo di Andy Rogers con palla in buca d’angolo, proprio sotto lo spicchio di stadio occupato dalla gente arrivata dal Devon. Una rete clamorosa che deciderà l’incontro e inserirà la pallina con il numero del Plymouth Argyle nella sacca color porpora della FA per l’abbinamento delle quattro semifinaliste.

Erano passati esattamente 98 anni dalla fondazione del club. Una scommessa fra due amici, e la solita irresistibile nuova moda di fine ottocento di giocare a calcio. Bedford Street e il suo coffee house, chiamato “Borough Arms” il luogo della scintilla. Loro sono Howard Grose e William Pethybridge ex alunni di una scuola pubblica che decidono di regalare a Plymouth il suo sodalizio pedatorio. Il 16 ottobre 1886 entrambi scenderanno in campo nella prima partita che la squadra pare disputò contro una compagine della vicina Cornovaglia, il Caxton, che per la cronaca s’imporrà per due reti a zero. Si rifaranno qualche giorno dopo con il Dunheved College di Launceston, dove fra l’altro molti elementi del neonato Argyle Football Club erano stati educati e vi avevano studiato. Le speculazioni che circondano l’origine del nome Argyle non sono del tutto chiare, ma in fondo è giusto così, questa è terra di confine, un limbo, dove si mischiano tradizioni britanniche e leggende celtiche, una separazione meno oggettiva di quella che materialmente rappresenta il Tamar Bridge che divide Devon e Cornovaglia. Una delle spiegazioni plausibili sembra mutuare l’appellativo da un reggimento militare chiamato Sutherland Highlanders che all’epoca gestiva una propria importante squadra di calcio. Un’altra ipotesi è invece dettata dal fatto che nei pressi del “Borough Arms” si trovasse anche un osteria denominata “Argyle Tavern” dove spesso i soci fondatori erano soliti rifocillarsi. Ci sarebbe anche un’ultima teoria che riconduce alla Regina Vittoria e ai suoi interessi scozzesi nella storica città di Inverary, sede del Duca di Argyll. In ogni caso la squadra assume il suo nome definitivo nel 1903 quando si affaccia per la prima volta al professionismo sotto la direzione di Bob Jack.

Certo che pur essendo un piccolo club ce ne sarebbero di storie da raccontare. Un viaggio prima di tutto. Una tournee estiva che nel 1924 portò i pilgrims ancora aldilà dell’oceano, come quella volta del 1620. Ma in questo caso la nave fa rotta verso l’America del Sud, e senza essere accompagnati nel lungo tragitto dai sermoni infuocati della Bibbia riformata, bensì solamente dalle divise da gioco e da qualche pallone per fare due scambi d’allenamento sul ponte della nave, stando attenti, per carità, a non far cadere la preziosa sfera fra i marosi dell’ Atlantico. Il Plymouth vinse la prima partita 4-0 contro l’Uruguay che sei anni dopo non scordiamoci, si sarebbe laureato campione del mondo nella sua casa di Montevideo. Poi i ragazzi del Devon fanno un'altra impresa andando a battere l’Argentina per 1-0, e sempre a Buenos Aires il 9 luglio 1924 pareggiano una partita incredibile con il Boca Juniors. A catturare l’attenzione di tutti, lo stile di un certo Mosè Russell, il capitano dell’Argyle, dalla spiccata personalità, e dal calcio preciso e potente. Succede che nel momento in cui i padroni di casa vanno in vantaggio, il pubblico invade il campo e porta assurdamente in trionfo intorno al rettangolo di gioco i propri calciatori. Quando una mezzora dopo si ristabilisce una parvenza di calma, l’arbitro assegna un rigore ai verdi di Plymouth. A questo punto sembra che, visto il contorno non idilliaco, Patsy Corcoran l’incaricato di battere il penalty si sia preventivamente accordato con i suoi per sbagliare appositamente il tiro e non rischiare eventi sgraditi. Tuttavia l’audace Russell non è disposto a perdere in maniera così vigliacca. Diventa l’angolo morto. Chi guida sa cos’è. Si tratta di quella piccola porzione di vista sottratta allo sguardo indagatore dello specchietto laterale. Un paio di secondi, o poco meno, durante i quali un oggetto qualsiasi in movimento al nostro fianco non viene assolutamente percepito: in quegli attimi l'oggetto non esiste. Eppure c'è e sta camminando con noi. L’oggetto è Russell. Un attimo prima che il suo compagno calciasse il pallone, precede Corcoran segnando fra la sorpresa e il timore di tutti. Apriti cielo. Nuova invasione, nessun giocatore aggredito, ma tanta paura e partita sospesa. I momenti memorabili non sono finiti qui. Marzo 1973. A Home Park, casa del Plymouth Argyle dal 1901 è di scena niente meno che il gigante brasiliano del Santos. Tra loro, un certo Edson Arantes Do Nascimento, in arte Pelè, il più forte giocatore del mondo, la pantera nera di Tres Coracoes. Ad ammirarlo 37639 persone, che applaudiranno in verità il successo dei Pilgrims grazie alle reti di Mike Dowling, Derek Richard e Jimmy Hinch. Il risultato finale fu di 3-2, Pelè mise a segno un rigore, ma non bastò ai bianconeri di San Paolo per evitare la sconfitta. Il fischio conclusivo fu il segnale della festa. Quel 1973 non sarà ricordato solo per la vittoria sul Santos; nella squadra allenata da Tony Waiters esordisce Paul Mariner, attaccante con la faccia da cantante pop che in area di rigore se la suona e se la canta. Se ne andrà nel 1976 a fare le fortune dell’Ipswich Town di Bobby Robson, lasciando a Home Park uno spartito con 56 note musicali. I suoi goal. Lì segnerà con la maglia dal semplice monogramma PAFC che aveva sostituito l’emblema della Mayflower, reintrodotto solo qualche tempo dopo. Non gli unici simboli che hanno rappresentato l’evoluzione dei crest societari dei Pilgrims. Anni prima era apparso anche uno scudo sferico, dove il simbolo della contea era attraversato da una croce di sant’Andrea, cui è dedicata la chiesa madre di Plymouth.

Ora é tempo di tornare a quel giorno d’aprile del 1984. Sul soleggiato Villa Park, il Plymouth Argyle entra in campo con una tradizionale maglia verde su pantaloncini neri, una tonalità piuttosto insolita in Inghilterra ma che questo club dalle venature insulari, ha fieramente e fortemente voluto, lasciandosi prendere la mano solo negli anni sessanta quando si scelse un kit di tendenza innovativa con il bianco preminente. In un’atmosfera che solo la magia della FA Cup sa regalare i Pilgrims, scendono sul terreno di gioco snocciolando la loro preghiera: Crudingngton, Nisbet, Uzzell, Harrison, Smith, Cooper, Rogers, Phillips, Hodges, Tynan, Stainforth. Di fronte, l’undici in giallo di Peter Taylor, e dell’”eccentrico” proprietario Elton John. Era l’ Watford della grande cavalcata dalla quarta divisione ai vertici della massima serie, e che in quel momento toccava l’apice di una celebrità che fece epoca. Diciamolo subito. Il Plymouth avrebbe meritato di più. Invece fu colpito a freddo dopo appena un quarto d’ora dal colpo di testa dello scozzese George Reilly che sulla pennellata dal fondo di John Barnes segnò il goal più importante della sua carriera, sotto la gremitissima Holte End. Direbbe un vecchio adagio, “mancò la fortuna non il valore”. Mancò soprattutto quella rete che sembrava fatta, ma che il fulvo centrocampista Kevin Hodges “riuscì” a sbagliare a pochi passi dalla porta mancando l’impatto con il pallone davanti alla faccia smarrita di Steve Sherwood. Ma alla fine cosa si vuole imputare a uno che ha regalato ai verdi del Devon quasi tutta la sua carriera diventando il giocatore con più presenze con la maglia dei Pilgrims. Ciccò il pallone come si dice in gergo. A Plymouth sembra si rattristò anche la statua di Francis Drake. Lui, il prediletto della regina Elisabetta che sprezzatamente giocava a bocce sul porto mentre all’orizzonte incominciavano a disegnarsi le sagome minacciose dell’invincibile armata spagnola. Lui forse avrebbe segnato quel goal che avrebbe rimesso in parità l’incontro, e poi sarebbe corso in panchina da John Hore a bere un sorso di rum. O magari no. Perché forse la favola dei Pilgrims doveva chiudersi lì. Amen.

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di Sir Simon

Il Canto del Galletto


La scena è desolante. Bradford è una città di fantasmi. Strade deserte, luci spente, pubs vuoti. Siamo in primavera ma il cielo grigio e la temperatura quasi invernale rendono il tutto ancora più lugubre. Le ricerche per tentare di scovare ancora qualche superstite sono terminate. Il bilancio è pesantissimo, cinquantasei morti, oltre duecento i feriti. Fra i resti delle tribune carbonizzate emergono le tracce della colpa. Una copia ingiallita del “Bradford Telegraph” di lunedi 4 novembre 1968, e un pacchetto di arachidi scaduto nel 1971. Peccato che quel giorno sia l’11 maggio 1985. Spazzatura che si è accumulata negli anni sotto le assi di legno del Valley Parade e mai smaltita. Superficialità e inadempienze pagate a caro prezzo. Quello stadio era una bomba a orologeria pronta a esplodere. Bastò un mozzicone di sigaretta o un fiammifero a scatenare un inferno di fuoco. Di lacrime e paura. E pensare che avrebbe dovuto essere una festa. Il Bradford City aveva vinto il campionato di terza divisione, e quel giorno contro il Lincoln City, ci sarebbero state le celebrazioni di rito in un’atmosfera assolutamente allegra. I primi applausi erano partiti ancora prima dell’inizio del match quando il capitano Peter Jackson si era presentato in campo con il trofeo conquistato. Undicimila tifosi in estasi. Tirava vento sulla cittadina dello Yorkshire. Il solito vento, che da queste parti non va quasi mai a braccetto con le stagioni. E’ sempre il solito vento. Freddo e pungente. Quelle maledette sigarette si accendono male. Uno, due, tre cerini per i meno pratici, poi cavolo qualche tiro tanto per darsi un aria, e il solito gesto sprezzante del bullo che getta a terra la cicca senza assicurarsi di averla spenta. “Tanto l'ho fatto mille altre volte”. Ma quella volta non è la solita volta. Dopo 40 minuti ci fu un primo incendio nei pressi del settore G dello stadio e dopo soli tre minuti la polizia cominciò a far evacuare i tifosi presenti nel settore. In seguito le fiamme cominciarono a diffondersi, facendo crollare il tetto della tribuna. I sopravvissuti raccontarono che era quasi impossibile respirare e l'arbitro della gara, Don Shaw, fu costretto a fischiare l'interruzione della partita. A causa del vento le fiamme si estesero in molti altri settori. Molti spettatori, nel tentativo di scappare, scesero sul terreno di gioco, altri erano riusciti a rifugiarsi nelle case vicine, altri ancora, cercarono di aiutare la polizia nel tentativo di salvare qualcuno, ma non c'erano estintori all'interno dello stadio; erano stati tolti per evitare possibili atti di vandalismo. Anche i giocatori delle due squadre cercarono di aiutare le forze dell'ordine e le aiutò anche l'allenatore del Bradford, Terry Yorath, che aveva i familiari proprio nel settore colpito per primo dal rogo. L' identificazione fu complicatissima. Soltanto in quindici casi la polizia ricostruì con relativa certezza l'identità delle vittime. Il vescovo raccolse la città in preghiera. La domenica nell’antica cattedrale c’erano oltre tremila persone. Bradford non ha mai cercato vendette. Aldilà dell’irresponsabilità di qualcuno, l’incuria e la scarsa manutenzione dell’impianto erano sotto gli occhi di tutti. Lo stadio fu chiuso, ristrutturato e riaperto nel dicembre del 1986.
Era stato costruito centodieci anni prima, nel 1886, ma non per il calcio. Vi giocava, infatti una squadra di rugby, il Manningham, che però cadde in difficoltà economiche dalle quali cercò di riprendersi organizzando gare di tiro con l’arco rivelatesi infruttuose per la soluzione dei propri problemi finanziari. E allora nel 1903, con il decisivo intervento di un certo James Whyte, di mestiere redattore del “Bradford Observer”, la struttura venne occupata dal neonato sodalizio calcistico: il Bradford City, che del vecchio Manningham mutuo i colori ambra e bordeaux. Sangue e senape. Una metafora per qualità guerriere, rafforzate dal fatto che vuole l’adozione di questa colorazione, all’uso che ne faceva il West Yorkshire Regiment di stanza nella caserma Belle Vue, sita nei pressi del campo da gioco, e usata per un breve periodo anche come spogliatoio. Queste tonalità furono accompagnate dall’emblema cittadino fino ai primi anni sessanta, poi il “coat of arms” locale fu abbandonato per lasciare spazio all’orgoglioso gallo (animale totem della società) seduto in cima allo scudo riportante l’acronimo del club. Le insegne della città continuano a vivere su un'altra maglia di un'altra squadra cittadina ovvero il Bradford Park Avenue. Come sia arrivato il gallo o “bantam” non è storia completamente chiara. Primo indizio la tinta della divisa che riporta al “pigmento” del focoso uccello da cortile. Secondo indizio un disegno di quest’animale che era raffigurato in origine sulla facciata degli uffici del club. Tuttavia il nickname “Bantams” fu fortemente osteggiato per un lungo periodo da quello “Paraders”, anche se quest’ultimo non fece mai presa sui tifosi al punto che venne abbandonato agli inizi degli anni ottanta. Primo manager della squadra, Robert Campbell e primo match amichevole nel settembre 1903 contro il Common Grimsby, che si impose per due reti a zero. Quattro giorni dopo invece l’esordio in campionato con il Gainsborough Trinity. Nel 1905 prende il timone del club uno scozzese, serioso, sempre elegante, e dal baffo curato secondo i crismi dell’epoca. Si chiama Peter O’Rourke ed è nato a Newmilns, un piccolo borgo dell’East Ayrshire. Con lui il Bradford City conquisterà il trofeo più importante di tutta la sua storia: la FA Cup del 1911. Servirono due partite per avere ragione del Newcastle United. La prima gara si disputò a Londra il 22 aprile al Crystal Palace e terminò a reti inviolate. Quattro giorni dopo, anche per motivi logistici la ripetizione ebbe luogo all’Old Trafford di Manchester. I nomi sono scolpiti nel marmo. E nella mente. Una litania di pionieri in bianco e nero, e un pugno di medaglie, alcune nelle stanze museali del club insieme a altri ricordi e cimeli di quei giorni. L’eroe di quella finale, senza nulla togliere all’istrionico portiere Mark Mellor, al guizzante tornante Frank Thompson o al robusto difensore David Taylor fu senza dubbio, James Hamilton Speirs. Uno nato nel quartiere di Govan a Glasgow nel 1886. Un ragazzone dalla faccia sincera, quinto di sei figli. Suo padre e suo nonno erano minatori, lavoro duro e salari non eccelsi. Lui a 15 anni lasciò la scuola guadagnandosi da vivere come impiegato. Il calcio entra subito nella sua vita con la squadretta locale giovanile dell’ Annandale, ma presto si trasferirà nel nord della città a giocare nel Maryhill FC. E’ la primavera del 1905. Deve aver fatto sicuramente una grande impressione, perché, dopo appena una manciata di partite, firmò per i Glasgow Rangers, al termine della stagione 1904-05, all'età di soli 19 anni.
Nel corso delle successive tre stagioni, giocò un totale di 62 incontri nella lega scozzese segnando 29 gol per i Gers, prima di trasferirsi al Clyde nel 1908. Un anno veramente importante per il ragazzo. In marzo, Speirs esordisce nella nazionale di Scozia in una partita valida per il campionato britannico contro il Galles a Dundee. Nel luglio 1909 arrivò finalmente nel Bradford nella prima divisione inglese. Ne diventa capitano, e segna 29 volte in 86 presenze, con ulteriori 4 gol in coppa. All’ Old Trafford raggiunge il picco della gloria personale realizzando la rete decisiva dopo quindici minuti dall’ fischio iniziale. Se ne andò dal Valley Parade nel 1912 per approdare al Leeds City dove troverà ad allenarlo il mitico Herbert Chapman. Jimmy Speirs giocò la sua ultima partita di campionato nella stagione 1914-15, e nonostante fosse stato sposato e avesse bambini piccoli, tornò a Glasgow per arruolarsi nei Cameron Highlanders. Nel mese di marzo 1916, l'allora caporale Speirs sbarcò in Francia. Anche li un successo, forse maggiore di quello sportivo. Vinse la medaglia militare per il coraggio avuto sul campo di battaglia e fu promosso sergente. Ma il destino cinico e baro lo colpì a tradimento tragicamente, a soli 31 anni. Il 20 agosto 1917,la moglie fu informata che Jimmy era tra i dispersi. Morirà per le ferite riportate, e ancora oggi riposa nel vento delle fiandre nei pressi di Ypres.
Il Bradford City dopo quell’impresa resterà in prima divisione fino al 1922. Ci vorranno 77 lunghi anni per riportarlo di nuovo nella massima serie inglese. Un arco temporale lunghissimo dove vale la pena ricordare Cess Podd e le sue 14 stagioni consecutive dal 1970 al 1984, e Bobby Cambell, il miglior marcatore di sempre con 121 goal a cavallo fra il 1979 e il 1986. Un pellegrinaggio infinito nelle categorie inferiori, e pochissimi sussulti di celebrità. Il vento cambiò nel 1990. La bonaccia arriva con l’avvento di Geoffrey Richmond sulla poltrona di presidente. Il City navigava sempre nelle limacciose acque della seconda divisione, ma in compenso lo stadio era stato riaperto e messo in sicurezza con la costruzione di nuove stand.
Richmond esordisce con quella che sembrò una battuta: “ Potete pure farci una risata, ma entro cinque anni questo club sarà in Premier League”. E giù, mormorii sommessi, facili ironie, e risate di circostanza. Nel 1995-1996, Richmond assume Chris Kamara. Una mossa ispirata e indovinata. Kamara coglie la finale play-off in una giornata da togliere il fiato. Nella gara d’andata perse in casa contro il Blackpool 2-0. Tutto il duro lavoro sembrava essere stato infranto. Ormai non ci credeva più nessuno. Ci credevano ovviamente a Blackpool dove già avevano fornito ai loro tifosi le indicazioni per il viaggio a Wembley. Ma il Bradford City annichilisce la folla del Bloomfield Road ribaltando la situazione e vincendo per 3-0. E’ stato, forse, uno dei risultati più sorprendenti dell’intera storia del club. Oltre 30.000 Bradfordians fecero il viaggio verso Londra Nord per vivere una giornata indimenticabile. Sconfissero il Notts County 2-0, e si assicurarono un posto in Division One.
La stagione successiva fu un’autentica lotta per la sopravvivenza. Nel maggio 1997, mentre l’intera nazione aspetta di sapere se il partito laburista di Tony Blair vincerà le elezioni, a Bradford si aspetta invece di sapere se i Bantams batteranno il Charlton per avere ancora qualche possibilità di salvezza. Il Bradford City vincerà 1-0 ma gli ultimi istanti saranno a dir poco strazianti con i londinesi che colpiranno due pali nel giro di pochi minuti. L'ultima giornata portò al Valley Parade il QPR, e il City vincendo 3-0 mantenne la categoria. Se tutto questo entusiasmo non bastasse, qualche settimana prima la Regina Elisabetta aveva ufficialmente aperto il nuovo stand su Midland Road. Nel gennaio del 1998, Kamarà verrà licenziato e al suo posto subentra Paul Jewell. Ricevette una tiepida accoglienza. Tuttavia la campagna acquisti estiva vede Il ritorno di Stuart McCall e l’arrivo dell’ attaccante Lee Mills.
Nonostante buone aspettative , il City vinse solo una volta nelle prime sette partite. Quando sembrava che le capacità manageriali di Jewell non fossero in grado di dare i risultati sperati la squadra infilò una striscia positiva impressionantie che culminò a Wolverhampton, quando una vittoria avrebbe riportato il club di Valley Parade nella luccicante Premier League. Il vantaggio dei Wolves mise paura a tutti, ma la terna realizzativa di Peter Beagrie, Lee Mills e Robbie Blake portò i bantams sul rassicurante vantaggio di 3-1. Anche quando Beagrie sbagliò un rigore la festa sugli spalti non diminuì. I lupi però non erano rientrati nel bosco, e si riavvicinano pericolosamente segnando il 3-2. Nervi, ansia, e sensazione di tempo sospeso. Ma alla fine ecco il fischio tanto atteso. Dopo 77 anni il Bradford City era tornato in Premiership e 3000 tifosi festeggiano inebriati. Nella stagione seguente i media congiurano contro la squadra di Jewell, ritenendo il suo arrivo nella massima serie, solo una rapida toccata e fuga nell’Olimpo dei grandi. Si dovranno ricredere. Ancora una volta il destino della “Città” sarebbe stato deciso l'ultimo giorno del campionato. Contro il Liverpool.. Un pomeriggio indimenticabile. Con appena dieci minuti sull'orologio David Wetherall di testa porta in vantaggio il Bradford. Il Liverpool mette sotto assedio i bantams ma la tenace difesa e l’inspirato Matt Clark tengono a freno Owen e compagni. Contro tutte le aspettative i galletti erano sopravvissuti. Paul Jewell, i suoi pugni in aria in segno di trionfo, ha tutto il diritto di godere con un sorriso ironico di chi aveva dubitato di lui. La gioia per la salvezza fu ampliata anche dalla notizia che la squadra avrebbe potuto partecipare alla coppa Intertoto, la competizione estiva per accedere a un posto in Coppa Uefa. I bantams si comportarono bene. Furono esclusi solo al terzo turno dallo Zenit di San Pietroburgo. Quello fu però l’inizio dei problemi. Arrivò la retrocessione, e a dirla tutta arrivò anche Benny Carbone. Ma i guai finanziari ebbero il sopravvento. In attesa del nuovo canto del gallo.

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di Sir Simon

Le Volpi di Leicester


“La cosa grandiosa del Leicester City è che facciamo schifo! Siamo spazzatura! Ma questo non importa perché quella volta che raggiungi un obbiettivo è tutto più dolce dopo aver sofferto così tanto..!” Parole senza musica di Sergio Pizzorno il capelluto chitarrista dei Kasabian, felicissimo a quanto pare di crogiolarsi nella mediocrità delle volpi. E questo concetto sembra attecchire anche fra tifosi meno famosi: “Immaginate di essere stati per 20 anni sulla South stand a supportare una squadra ridicola, e improvvisamente diventasse un gruppo di fenomeni.. Non puoi voltargli le spalle è la tua squadra, però ti spezzerebbe il cuore vederli vincere facilmente.. Deve essere successo lo stesso a quelli del Chelsea.. arriverei perfino a odiarli un po’ se questo accadesse anche al Leicester, se diventassimo solo una macchina macina soldi.. Preferisco tifare per una squadra di merda”. Pensiero estremo, che ovviamente non tutti condividono, soprattutto le generazioni più giovani, ma ad ogni modo idea rispettabile per quanto paradossale, visto che pur sempre emanazione di chi ha trascorso più tempo della sua vita a vedere giocare undici uomini in maglia blu, che con la propria famiglia. Oh, adesso occorre contestualizzare meglio. Leicester è una bellissima cittadina, stracolma di fiori, verde, prati e piste ciclabili. Gode del privilegio di essere la “First Environment City of England” e vanta splendidi parchi, fra cui lo straordinario Abbey Park. E non stupitevi, se, fra le miriadi di animaletti presenti, incrociate delle piccole volpi rosse, denominate simpaticamente “Urban Foxes”. La loro presenza fra le vie cittadine ormai è una piacevole costante. Ora se il corto circuito appare inevitabile, l’accostamento calcistico fox- Leicester non sarà subito automatico. Come non lo sarà nemmeno il suffisso City. In realtà il primo nome del club fu Leicester Fosse perché il campo da gioco si trovava in una certa Fosse Road. Bisogna comunque andare per gradi. Nel 1884 un gruppo di ragazzi della Wyggeston School, lasciata la Bibbia nei banchi dell’ sobrio Istituto, formalizzarono la nascita del sodalizio riunendosi in una casetta da giardino a pochi passi da South Fosse Road, nome derivato dall’antica strada romana che partiva da Exeter, attraversava Bath, Cirencester, Leicester e terminava a Lincoln. L’aspetto curioso è che sul terreno preso in affitto appunto a Fosse Road, il neonato Leicester Fosse giocò soltanto una partita per trasferirsi quasi subito nella zona di Victoria Park, quella dove oggi si erge l’imponente monumento in memoria dei caduti delle due guerre. Ma anche qui il pallone ebbe vita breve. Sarebbe occorso, infatti, recintare il terreno per organizzare partite di un certo livello e iscriversi ai campionati ufficiali. Venne allora trovato un “impianto” (termine non esattamente corretto..) nella zona nord della città, a Belgrave Road. Purtroppo mancavano gli spogliatoi a ridosso del campo, e i baldi giocatori erano costretti a usare il White Hart Hotel. Bene direte voi, no, aggiungo io. L’Hotel era a disposizione ma si trovava a più di un miglio di distanza. Nonostante tutto per due anni il “Fosse” si arrangiò come meglio poteva, se non che, fu obbligato a abbandonare Belgrave Road, sconfitto dalla concorrenza di un team di Rugby che evidentemente aveva argomentazioni economicamente più convincenti dei ragazzi vestiti con i camicioni bianco blu, che se ne tornarono mestamente in quel di Victoria Park. Il nomadismo esasperato di quegli anni era però tutt’altro che concluso. Meno di una stagione, e il Leicester Fosse si spostò in Mill Lane, poi quando sembrava che questa potesse essere finalmente la sede definitiva, arriva la richiesta di “sfratto” da parte della commissione edilizia locale, perché il sito in questione era stato adibito alla costruzione di nuove abitazioni. Un trauma. Quel Leicester era nuovamente senza casa. Pare che il problema si risolse con una passeggiata. Un giorno la signorina Westland nipote di Joseph Johnson uno dei fondatori del club, passeggiando con lo zio in Walnut Street, pensò che quello poteva essere un buon posto per il “Fosse”. Lo zio, prese talmente in seria considerazione la sua proposta che dopo qualche tempo iniziarono i lavori, e il 17 ottobre 1891 fu inaugurato lo storico stadio, ribattezzato successivamente, come Filbert Street, e che per 111 anni ha fatto da scenario alla più importante squadra della città. Per la denominazione “City” bisognerà invece attendere il 1920, quando per sopraggiunti problemi economici la società fu rifondata e si decise di rinominarla, con un sostantivo di maggiore “appeal”, segno che anche a quei tempi era importante garantirsi una certa immagine visto e considerato che da poco era arrivato anche lo “status” di città. E con il nuovo nome arrivò rapidamente anche un altro nickname. Dopo “le nocciole” ecco le volpi. D’altro canto la folta presenza di quest’ animale nelle campagne del Leicestershire, e la rinomata caccia alla suddetta, non poteva, non influenzare la scelta del nomignolo. La raffigurazione di una volpe sulle maglie del Leicester City apparve per la prima volta nel campionato 1948/49. Più avanti, in anni relativamente recenti, il disegno venne incorporato al centro di un crest araldico che ricordava l’insegna personale di Robert di Beaumont, primo conte di Leicester. Dal momento che stiamo analizzando l’anima storica di questo club, non possiamo esimerci dal ricordare che da lustri il Leicester City scende in campo sulle note emotive del Gallop Corn Post, una melodia utilizzata nel XIX secolo per annunciare l’arrivo in città delle diligenze. Il brano fu suonato con certezza a Filbert Street almeno dal 1930, quando un uomo vestito con un cappotto blu e un cappello a cilindro si posizionava all’imbocco del tunnel degli spogliatoi e suonava la tromba. Alcuni anni fa fu suggerito di sostituire l’antico suono con qualcosa di più moderno, ma la reazione immediata della maggioranza dei fedeli delle foxes, ebbe la capacità di far desistere subito dal progetto, e così il City continua ad avere la musica d’ingresso in campo più tradizionale della cara e vecchia Inghilterra. All’inizio del racconto ho ironicamente accennato al fatto che il Leicester non sia propriamente quello che si dice una squadra di successo. In effetti, se la federazione non si fosse inventata il terzo trofeo domestico per importanza, ovvero la coppa di Lega, vinta per tre volte( l’ultima nel 2000 )il museo del nuovo Walkers Stadium, o per l’esattezza King Power, sorto nel 2002, a poca distanza da Filbert Street, apparirebbe desolatamente vuoto. L’elenco delle glorie sfiorate parla di un secondo posto in campionato nel 1929, e “quattro finali quattro” di FA Cup, perse rispettivamente nel 1949, 1961, 1963 e 1969. A dirla tutta ci sarebbero da menzionare sei titoli di seconda divisione e una particolare Charity Shield datata 1971 vinta in casa contro il Liverpool in quanto l’Arsenal campione si rifiutò di partecipare all’evento e la partita fu disputata fra i reds secondi classificati e il Leicester City vincitori della divisione cadetta. Qualche nome è d’obbligo. Gli anni 20-30, oltre a una nuova promozione del club dopo quella ottenuta nel 1908, durata però solo una singola stagione, sono gli anni della presenza di uno dei giocatori più importanti della storia del sodalizio ovvero Arthur Chandler, un omaccione nato a Paddington capace di mettere a segno 259 goal in 393 partite. Memorabile il campionato 1928/29 chiuso al secondo posto alle spalle dello Sheffield Wednesday. Resterà come detto in precedenza il miglior risultato nella massima serie del club. Dal 1935 fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale assistiamo a un periodo di promozioni e retrocessioni continue, poi nel 1949 il Leicester conquista la sua prima finale di FA Cup, persa per 3-1 contro il Wolverhampton. Gli anni cinquanta scorreranno sotto la stella di Arthur Rowley il giocatore che più di tutti ha segnato nei campionati professionistici inglesi. Lo soprannominarono “the gunner” per l’esplosività del suo piede sinistro. Arrivò dal Fulham per 14000 sterline, e perché a quanto sembra sia lui che la moglie appena sposati non gradivano troppo vivere nella caotica Londra, e Leicester sembrò a entrambi un ottima soluzione. Le oltre 250 reti segnate stanno lì a dimostrarlo. L’anno di grazia fu il 1957 sotto la guida di Dave Halliday con 44 centri in 42 partite. Ma il momento migliore per il club di Filbert Street, sono probabilmente gli anni sessanta. Il decennio del manager Matt Gilles e del suo assistente Bert Johnson, che raggiunsero la finale di coppa d’Inghilterra nel 1961 e nel 1963, vincendo la finale di coppa di lega del 1964 con un rocambolesco 4-3 ai danni dello Stoke City, ma non bissando il successo l’anno seguente. Interessante periodo dove il Leicester City venne apostrofato come “The Kings Ice” grazie a un percorso di forma sensazionale sui campi ghiacciati che lo portarono a ottenere un quarto posto finale nel campionato di prima divisione, il migliore dal dopoguerra a oggi. Gilles si dimise nel novembre del 1968 e al suo posto arrivò Frank O’Farrell che riuscì ad evitare la retrocessione e portare per la quinta volta a una finalissima in appena dieci anni anni il Leicester, dove però ancora una volta si arrese all’atto conclusivo di quell’ edizione di FA Cup, al Manchester City. A questo punto si succederanno sulla panchina, Jimmy Bloomfield, Frank Mc Lintock, Jock Wallace (che porterà l’ennesimo titolo di campione di seconda divisione nel 1980), e Gordon Milne che salirà in First Division nel 1983, tanto per citare i più importanti. Ma per tornare a sollevare una coppa servirà attendere l’era Martin O’Neill. Il tecnico nord irlandese arriva nel 1995 e subito ottiene una palpitante promozione nella finale play off’s grazie a un goal nei minuti finali di Steve Claridge. Il Leicester City si consoliderà in Premier League per un discreto periodo di tempo e porterà a casa due coppe di Lega. La prima nel 1997 contro il Middlesbrough, la seconda nel 2000 contro il Tranmere Rovers, e sollevata al cielo dal grintoso capitano Matt Elliott. Nel mezzo, una finale persa malamente, sempre di League Cup, al novantesimo con il Tottenham. Quando a fine 2000 O’Neill lascia il testimone a Peter Taylor incominciano anni complicati e sottotono con retrocessioni e amministrazione controllata a causa del forte indebitamento societario. Fu una cordata guidata fra gli altri dall’ex attaccante Gary Lineker a dare una mano al club per uscire dalle brutte acque. Anzi diciamo dalla tana. Alla fine stiamo trattando di volpi, possiamo fare un sorriso, lo dice anche l’inno del club. “When you’re smiling”.


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di Sir Simon

Fulham, tra sogni, utopie e una Finale di FA Cup


Affacciatevi sul Tamigi mentre attraversate Putney Bridge. Potreste vedere una maestosa famiglia di cigni scivolare elegante e silenziosa sulle acque del placido fiume. Provocazione emotiva. Perché fondamentalmente il romanticismo nella sua essenza è la condizione dell’uomo che si affida alle dolcezze del sentimento per sfuggire alle asprezze della ragione. Hanno abbattuto il vecchio Wembley e le sue torri, salvandone solamente l’apparenza e la parvenza. Le macerie di Highbury invece respirano ancora. E’ il progresso dicono. Sparisci storia, non sei più gradita. Sei anacronistica, senile, puzzi di rancido. E il fascino? Solo pelle raggrinzita di mille partite, maglioni di lana pesante e ridicoli palloni di cuoio scuro. Ma il carisma della leggenda? Vene varicose di vecchie tribune, buone solo per nostalgici come me. Quello era il calcio di una volta, stai invecchiando mi dicono. Vuoi per caso rimettere i riflettori degli anni settanta all’ Emirates Stadium? Lì ci vanno le famiglie. Sedute, comode, ordinate, pulite, sicure. Con attorno steward educati, discreti, che non si inquietano mai, perché l’immagine è importante, che scherziamo. Come le maglie. Ogni anno riviste e corrette in nome della legge di un merchandising sempre più prioritario. Malinconia. Una tristezza non chiara, non definita. Una voglia di solitudine, un senso di grigiore, di vuoto interiore. E allora cerco conforto dal vecchio poeta seduto sulle rive del Tamigi. Meglio se in autunno, quando la breve camminata in mezzo agli alberi e alle case in stile di Bishop’s Park si colora di ruggine e sa di salmastro. Un tempo c’era un casolare fatto costruire nel 1780 da un certo barone William Craven. Un alloggio per il ludico divertimento di bizzosi aristocratici inglesi nelle loro giornate di caccia. Ma non solo spari. Sembra che anche altre attività sportive si svolgessero nei boschi che circondavano il Cottage. Quando nel 1888 un incendio lo distrusse, il Fulham scelse questo luogo ameno per costruire il suo nuovo stadio. Forse per non privare l’ambiente dei divertimenti che lo avevano contraddistinto. I lavori cominciarono nel 1894 e dopo due anni nacque il Craven Cottage. Facciata edoardiana in mattoni rossi, frutto della mente geniale di Archibald Leitch. Oggi della struttura originaria resta soltanto proprio la Stevenage Road o Johnny Haynes Stand, dal nome del celebre calciatore soprannominato “il maestro” che regalò tutta la sua carriera agonistica al Fulham. Il Fulham, certo. Verrebbe subito da cantare, “There’s only one club in Fulham..”. E’ l’orgoglio delle origini. D’altra parte questo è il più antico club di Londra, i vicini del Chelsea arrivarono dopo. Ventisei anni dopo, quel fatidico 1879 quando un gruppo di fedeli alla chiesa anglicana fonda il club dei “Cottagers”. Ma stiamo divagando troppo, perché il filone originale di questo racconto doveva prevedere il riassunto di quell’unico viaggio a Wembley. Di quel giorno di maggio del 1975, quando il Fulham contese al West Ham la coppa d’Inghilterra. Esattamente il 3 maggio 1975. E lo fece da squadra di seconda divisione, ma si trattò di una cenerentola accompagnata al gran ballo da due principi azzurri d’eccezione: Il capitano Alan Mullery, per anni gloriosa colonna del Tottenham, e niente meno che l’iconico Bobby Moore, il condottiero del mondiale 1966, nonché irripetibile mito proprio degli avversari di quel pomeriggio. In panchina Alec Stock, amatissimo dalle parti di Loftus Road per aver sdoganato negli anni sessanta il QPR da un mediocre anonimato. Uno che ebbe anche una fugace esperienza con il calcio italiano a Roma nel 1957 ma che non riuscì mai ad adattarsi venendo esonerato dopo quattro mesi, in concomitanza con l’aver perso il treno per la trasferta di Napoli. Quel Fulham era una squadra tutta composta da inglesi, se si eccettua la mascella volitiva dell’irlandese Jimmy Conway. La FA Cup 1974/75 prende la sua forma definitiva nel tradizionale terzo turno, un appuntamento da sempre imperdibile, uno di quei momenti benedetti, in cui Dio non solo deve salvare la Regina, ma anche tutto il calcio inglese. Il 4 gennaio ci furono subito vittime illustri. Tottenham Hotspur, Wolverhampton Wanderers, e Manchester City: i londinesi impattarono dapprima 1-1 al City Ground di Nottingham, per poi venire estromessi dal Forest fra le mura amiche di White Hart Lane per 1-0. I Wolves invece andarono direttamente fuori senza passare dal replay battuti in casa 2-1 dall’Ipswich Town. Stessa sorte per i citizens che crollarono a Maine Road, contro il sempre ostico Newcastle per 2-0. I detentori del Liverpool si imposero 2-0 sui vasai di Stoke, mentre il West Ham espugnò Southampton 2-0. Non mi sono scordato del Fulham. Per i bianchi fu un terzo turno più complicato del previsto. Ci vollero ben tre partite per piegare la stoica resistenza dell’Hull City. Tre settimane dopo è già tempo dei sedicesimi di finali, anzi da purista preferisco chiamarlo per quello che in realtà è, ovvero il quarto turno. Fu terreno di caccia per giant killer, che fecero due scalpi illustri. Il piccolo Walsall fece fuori davanti al suo pubblico il Newcastle per 1-0, e l’Ipswich Town che cominciava a scintillare di futura bellezza andò a violare il tempio di Anfield con il medesimo punteggio. Fu dura anche per gli Hammers, costretti da un brillante Swindon Town al replay che però si vide spegnere dai londinesi i sogni di gloria in casa propria. Assurdo, (ma solo se si esce dall’ottica inglese), l’impegno del Fulham contro il Nottingham Forest. Quattro partite quattro, dal 28 gennaio al 10 di febbraio, con ultimo decisivo successo per 2-1. Poche le emozioni invece che riservò il quinto turno, anzi no, perché i Cottagers andarono a sbancare Goodison Park contro un Everton che in quel momento veleggiava nella prima posizione della massima serie. E non scordiamoci che lo fecero da squadra di categoria inferiore. Nel derby del Boleyn Ground invece vittoria sofferta del West Ham sul QPR. Un successo quest’ultimo che entra in scia con la stracittadina del turno successivo di sabato 8 marzo dove il favoritissimo Arsenal, dovette fare i conti con l’irriguardosa ispirazione dei claret&blue di Upton Park. Alan Taylor in giornata di grazia mise a segno una decisiva doppietta che cancellò i gunners dal tabellone della coppa. L’Ipswich continuò il suo stato di grazia facendo fuori in due incontri il Leeds United di Allan Clarke e John Giles. Per il Fulham l’insidia si chiama Carlisle United, ma una rete di Les Barrett in trasferta scacciò ogni dubbio e ogni timore. Gli accoppiamenti per le semifinali del 5 aprile mettono di fronte West Ham- Ipswich Town al Maine Road, e Fulham- Birmingham City a Hillsborough. A Manchester la contesa si chiude a reti inviolate, mentre a Sheffield sarà ugualmente pareggio ma con goal. Mitchell per i cottagers, Gallacher per i “nasi blu”. Mercoledi 9 aprile si rigioca. Prassi di una liturgia consolidata e bellissima, persa nella frenesia inutile e asettica della coppa moderna. A Stamford Bridge ancora due goal di Taylor mandano avanti i martelli, al Maine Road che stavolta ospita Fulham e Birmingham finirà al 120esimo minuto dei supplementari grazie all’eroe di queste semifinali per gli “whites” John Mitchell. La finale. Wembley e i suoi centomila. La prima volta per il Fulham. L’emozione e qualche sbadataggine di troppo, tra il buffo e il grottesco, come quella degli accompagnatori della squadra che si erano dimenticati i parastinchi nei magazzini del Craven Cottage, e ci fu bisogno di ridurre con un seghetto quelli acquistati in un negozio nei dintorni dello stadio. Un Fulham che scese in campo con la consueta tenuta bianca dai baveri neri con il raffinato acronimo del club sulla maglia sottolineato dal ricordo dell’evento, altra tradizione meravigliosa e tutta british. I ragazzi di Stock non erano i favoriti anche se in campo la qualità non mancava e l’approccio alla gara non fu dei più timidi. Certo dall’altra parte oltre al già citato Taylor, spiccavano l’emergente Trevor Brooking, l’imperturbabile capitano Billy Bonds, e Frank Lampard, padre del futuro giocatore del Chelsea. E lentamente lo West Ham dopo un primo tempo incolore, incomincia a macinare gioco, fino a che nella ripresa la solita doppietta di Alan Taylor indirizza la coppa nel popolare east end. Al fischio finale del signor Pat Partridge, si chiude il sogno di quel Fulham, nell'attesa fin troppo paziente, di una chimerica prossima volta.

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di Sir Simon

Il Ritorno dei Rovers


Ottanta anni dopo. A essere esatti settantanove, ma non formalizziamoci troppo. Succede che a Blackburn, piccola cittadina del Lancashire, diventata famosa per la tessitura del cotone nei secoli scorsi, dominata da nebbie inclementi e brughiere desolate spazzate da raffiche di vento, era tornata di nuovo la gloria. Ma non quella industriale, dovuta alla settecentesca “Spinning Jenny” di James Hargreaves, bensì quella calcistica. Il Blackburn Rovers era di nuovo campione d’Inghilterra. Dopo l’ultimo titolo datato 1914. Il 14 maggio 1995 i Rovers, pur sconfitti ad Anfield dal Liverpool, approfittarono della mancata vittoria del Manchester United a Londra contro il West Ham, e sorprendentemente conquistarono il campionato inglese per la terza volta. Certo che a guardarlo con una prospettiva recente, quel successo targato Kenny Dalglish, arrivato a soli tre anni di distanza dalla promozione nella massima serie, resta indubbiamente il momento topico di questo club. Ma questa società ha origini antichissime e piene di affermazioni importanti. E quindi prima di parlare di quel Blackburn Rovers, è giusto tornare al punto di partenza, addentrarci nel passato, e osservare i primi poderosi passi di quello che fino al 1995 sembrava davvero un gigante addormentato. La squadra fu fondata nel novembre del 1875 nei locali del St. Leger Hotel in King William Street. Artefici del sodalizio furono alcuni ex studenti di una scuola pubblica, che videro in John Lewis il principale promotore. Un personaggio passato alla storia del calcio inglese giacché fondatore anche della “Football Association of Lanchashire”. Non solo. Ricoprì gli incarichi di vicepresidente della FA nazionale e, tanto per non farsi mancare nulla arbitrò due finali di coppa d’Inghilterra. Comunque le cronache coeve riportarono questo: "Il signor Thomas Greenwood è stato eletto capitano, Walter Duckworth segretario, Johnny Lewis tesoriere. La divisa decisa sarà blu scuro e bianco sul quarto di maglia con disegno della croce di Malta sul petto, e pantaloni bianchi". Nata l’idea non fu semplicissimo metterla in pratica. Solamente parecchi mesi dopo il club riuscì a trovare un terreno di gioco, un terreno e basta, se vogliamo essere precisi. Si trovava vicino alla scuola di St. Silas. Come avete capito un “impianto” piuttosto empirico e rudimentale privo di strutture per giocatori e spettatori. Addirittura pare che al centro del campo si trovasse una sorta di pozza di drenaggio di una vicina fattoria che ovviamente durante le partite doveva essere coperta con assi di legno e erba. Per il legno ci pensò un commerciante di legname, il padre di un calciatore, di mestiere commerciante di questo materiale. Una gentile concessione in un periodo dove il girovagare da un campo all’altro di questi sodalizi calcistici, per esercitare un passatempo di tipo strettamente proletario non veniva gradito troppo facilmente dalle autorità. A Blackburn, poi i Rovers dovettero anche rivaleggiare con le velleità del Blackburn Olympic un club almeno nelle intenzioni di levatura più aristocratica. Alla fine dopo altre peregrinazioni, dopo la permanenza straordinariamente fortunata nell’impianto di Leamington Road, (dove il club vinse niente meno che tre FA Cup), i troppo elevati costi di mantenimento consigliarono ai dirigenti della società di trovarsi una nuova casa, che arrivò in un quartiere piuttosto periferico, sulle rive del fiume Darwen e nei pressi dell’ Ewood Bridge. Da lì al nome Ewood Park il passo è breve, e il 13 settembre 1890 l’esordio contro l’Accrington fu visto da oltre 10000 persone. Tuttavia rifacendo un piccolo passo indietro i primi calci non furono propriamente confortanti (sconfitta 0-6 contro il Nottingham Forest in un terzo turno di FA Cup nel 1880, e uno 0-4 subito dallo Sheffield Wednesday un anno dopo) poi nel 1882 arrivarono alla finale di quella che all’epoca era veramente l’unica manifestazione calcistica popolare e di successo in Gran Bretagna. Persero 1-0 con gli Old Etonians, ovvero un gruppo di ex studenti del college di Eton, tre le cui file spiccava il celeberrimo Lord Kinnaird, vincitore di cinque coppe e autore dopo il successo contro i Rovers di un festeggiamento piuttosto inusuale e cioè una rapida camminata a testa in giù, quasi uno scherno per quelli di Blackburn, che attribuirono parte dell’insuccesso alla cabala in quanto dovettero cambiare i colori della loro divisa che nella circostanza risultava troppo simile a quella dei loro rivali. Ma il club ebbe modo di rifarsi. Accadrà nel 1884 sotto la saggia guida del segretario-allenatore Thomas Mitchell, in una finale passata alla storia come una sorta di Inghilterra-Scozia. Questo poichè tutti i giocatori del Blackburn Rovers erano inglesi, mentre gli avversari non solo erano una squadra scozzese (Queen’s Park per la cronaca) ma costituivano addirittura l’ossatura della propria nazionale. Il Blackburn si impose per 2-1 davanti a 12000 spettatori, ripetendosi l’anno successivo battendo nuovamente gli spiders di Glasgow, e realizzando un maestoso tris nel 1886 quando piegarono nella ripetizione della prima gara il WBA per 2-0. La prima partita fu caratterizzata dal fatto che i giocatori dei Rovers erano arrivati al campo piuttosto infreddoliti perché sembra, si attardarono lungo le sponde del Tamigi per seguire la classica “Boat Race”, la gara di canottaggio fra le università di Oxford e Cambridge. E da Cambridge arrivò anche la famosa tattica a piramide detta appunto di “Cambridge” uno schema 2-3-5 avente, la sua base sulla linea dei cinque attaccanti affiancati, e il vertice sul portiere . Questo modulo fece del Blackburn una delle squadre di riferimento di quei tempi e la portò a vincere oltre a sei coppe d’Inghilterra ( le altre nel 1890 nel 1891 dopo il trasferimento a Ewood Park, grazie soprattutto ai goal di Billy Tomnley e Jack Southworth, e l’ultima un po’ più tardi nel 1928), anche due titoli nazionali nel 1912 e nel 1914. Nel 1960 il Blackburn di Dally Duncan e di capitan Ronnie Clayton arrivò anche a Wembley a giocarsi la finale di FA Cup contro il Wolverhampton. Sarà una delle finali più calde mai giocate dal punto di visto climatico e infatti molti dei centomila presenti furono soccorsi per malore. Sul campo ci fu invece poca storia, i Wolves si imposero per tre a zero. Bello e menzionabile, per esempio, anche l’epilogo della stagione 1974/75 quando la squadra vinse il torneo di terza divisione. Gordon Lee che aveva sostituito Ken Furphy, non era affatto contento della rosa di giocatori a disposizione. Dopo aver traghettato il Blackburn verso una salvezza tranquilla nel primo anno della sua esperienza a Ewood Park, nell’estate del 74 smantellò la squadra portando nuova linfa ed entusiasmo. Nelle prime 12 partite i Rovers persero solo una volta e sembrava un anno buono per risalire nei cadetti. A Febbraio del 1975 le prime due della classe si dovevano incontrare a Blackburn. Il Plymouth di Paul Mariner si trovava in testa alla classifica dopo aver battuto proprio i ragazzi di Lee 10 giorni prima per 2-1. Ne risultò una partita che è rimasta nella storia del club per intensità ed emozioni. La pioggerella di rito e una folla di persone che non si vedeva da troppi anni a Ewood Park. L’atmosfera era davvero elettrica. Fu annunciato che la partita sarebbe stata trasmessa quella sera su “Match of the day” e per risposta si levò l’urlo “We’re gonna win the league!” D’altra parte era evento abbastanza raro che la BBC trasmettesse partite di quella categoria. Dopo un quarto d’ora i “Pilgrims” andarono in vantaggio e dopo altri due giri d’orologio raddoppiarono. I Rovers furono capaci di sbagliare anche un rigore, riuscendo però ad accorciare le distanze allo scadere del primo tempo. Un primo tempo bellissimo, ma su un campo che man mano diventava sempre più pesante e che poteva garantire ai verdi del Devon una ripresa volta al tranquillo mantenimento del risultato. Invece i Rovers iniziarono a macinare gioco e fu un susseguirsi di eventi. Segnarono ben 4 volte e la partita finì 5-2 al di là di ogni previsione formulata al termine della prima frazione di gioco. Il campionato terminò con la vittoria del Blackburn Rovers e il Plymouth meritatamente secondo. Poi arriverà quel famoso 1995. La svolta giunse alla fine degli anni ottanta quando Jack Walker ricco magnate locale dell’acciaio investì ingenti somme di denaro nel miglioramento del club, tanto che nel 1992 i Rovers erano ai nastri di partenza della massima divisione. E i primi due anni furono i chiari prodromi del successo, con un quarto posto e una piazza d’onore. Successo che arrivò nel campionato 1994/95. Alan Shearer fu, non solo il bomber ma anche l’anima di quella squadra. Inglese e caparbia, con davvero pochissimi stranieri. Alan arrivò dal Southampton in concomitanza con la promozione in Premier e il primo anno segnò 16 reti in 21 presenze. L’anno successivo si migliora facendo salire la media realizzativa e con i suoi 31 goal il Blackburn arriverà secondo alle spalle del Manchester United. Shearer rimase ammirato e stupito dalla cittadina del Lancashire. Disse di essere sorpreso dal non essere disturbato da nessun vicino di casa o da qualche tifoso invadente, nemmeno i giorni precedenti all’ultima partita decisiva, mentre in tutta tranquillità dipingeva il proprio steccato di casa. Niente flash, nessuna corsa per un autografo. Alan era semplicemente uno di loro. Loro che non dimenticheranno mai quelle corse gioiose sotto le tribune e quell’esultanza dopo ogni goal con la mano alzata e il sorriso beffardo di chi sa di essere un attaccante di razza, quel braccio teso a salutare il pubblico festante. I goal di Shearer riportano a un calcio antico, quasi come quello degli anni d’oro dei Rovers, pieno d’idoli semplici, comuni, niente star, niente wags, solo football e gli “Yeeess” urlati dopo la segnatura. In quella squadra guidata in panchina da Kenny Dalglish a fare compagnia al “geordie” c’era Chris Sutton, energico ragazzone nativo di Nottingham, che arrivò dal Norwich per l’ingente somma di cinque milioni di sterline. La sua collaborazione offensiva con Shearer fu talmente proficua che furono soprannominati con un acronimo commerciale: S&S. La sua non fu una carriera del tutto fortunata e a 34 anni decise di chiudere con il calcio per via di un fastidioso problema persistente all’occhio. Impossibile dimenticare il capitano Tim Sherwood, un centrocampista che ha svolto un ruolo assolutamente essenziale per le fortuna del club in quella stagione. Un simpatico aneddoto racconta che quando il tecnico Dalglish cercò di sondare la società per l’acquisto di Zinedine Zidane, Jack Walker gli rispose un pò sconcertato: “Perché vuoi Zidane quando abbiamo Sherwodd..? In difesa spiccarono le doti del biondissimo e roccioso difensore scozzese Colin Hendry, che aveva saltato gran parte della stagione precedente per un infortunio. Per lui la vittoria ebbe un sapore ancora più dolce visto che con i Rovers aveva anche assaggiato i palcoscenici della serie inferiore. Infine senza nulla togliere agli altri il portiere. Timothy Flowers detto Tim. Quando lasciò il Southampton nell’estate del 1993 risultò essere il portiere più costoso di Gran Bretagna con i suoi 2,4 milioni di sterline di trasferimento. Soldi comunque ben spesi e che garantirono interventi decisivi e quella sicurezza necessaria per agguantare la vittoria finale. Citazioni opportune anche per Greame le Saux, detto“il francesino” nonché raffinato laterale sinistro, e il coriaceo David Batty. L’avversario da battere era il Manchester United. I Red Devils avevano passeggiato a ottobre a Ewood Park vincendo per 4-2 e anche in casa la squadra di Ferguson l’aveva spuntata per 1-0. Ma l’impressionante cammino di quelli con la rosa rossa del Lancashire sul petto aveva fatto sì che il torneo si decidesse all’ultima giornata con le squadre divise in classifica da soli due punti: Blackburn 89, Manchester United 87. Il vantaggio esisteva. Questo era matematico, ma sembrava passeggero, vacillante, come una tregua prima della battaglia finale contro un nemico ferito ma non ancora battuto definitivamente. Lo United avrebbe dovuto sbancare per forza Upton Park sperando nella contemporanea sconfitta o, al limite pareggio degli avversari a Liverpool. Poteva anche starci, e i tifosi dei Rovers non dormirono sonni tranquilli quella notte. E cosi King Kenny e il suo sgurado di pietra tornarono ad Anfield. Ancora ad Anfield Road. A Londra i red devils misero subito sotto gli Hammers che però al 31’ andarono in vantaggio con Hughes. Shearer nel frattempo fa esplodere la curva dei sostenitori arrivati da Blackburn portando avanti i suoi. All’intervallo sembrava tutto già deciso. Ma nella ripresa lo United continua a giocare una partita a senso unico confortato anche dalla miglior differenza reti in caso di conclusione a parità di punti, e il campionato si riaprì quando Brian McClair impattò per lo United, e John Barnes pareggiò i conti per il Liverpool ad Anfield. Da questo momento, ed è il 20’ minuto del secondo tempo, lo United sottopone la porta di Ludek Miklosko, l’estremo difensore del West Ham, ad un autentico tiro al bersaglio. Il goal sembrava dovesse arrivare a momenti, e ciò avrebbe consegnato il titolo nelle mani degli uomini di Alex Ferguson.
Nel settore occupato dai tifosi dei Rovers si vivono momenti di disperazione e paura. Uno sguardo al campo, e un orecchio alla radiolina nella speranza che il Manchester United non segni ancora. Un’unica partita, in due stadi diversi, con il collante di mille emozioni. Al Bolyen, Miklosko è in giornata di grazia, quelli di Manchester mettono le tende nella sua area di rigore, ma lui para l’impossibile e respinge ogni tentativo di Cantona e compagni di portarsi in vantaggio. Gli Hammers avevano raggiunto una posizione di classifica tranquilla, ormai non avevano più nulla da chiedere al campionato. Ma qui non si vende la dignità. Non si regala niente a nessuno. Sportività e orgoglio. E l’incredibile suspense scorre fino al 93’ quando ad Anfield Jamie Redknapp porta in vantaggio il Liverpool chiudendo di fatto quell’incontro. Liverpool 2 Blackburn Rovers 1. Le immagini della televisione inglese si soffermarono inevitabilmente sul volto di Kenny Dalglish, riproponendo seppure a distanza di alcuni anni la stessa immagine vista sempre in quello stesso stadio, quando il tecnico scozzese allora con il Liverpool si vide sfilare il titolo a beneficio dei Gunners. Ad Upton Park arriva la notizia del vantaggio del Liverpool ma l’assedio in corso alla porta posizionata sotto la Bobby Moore Stand non produce il goal tanto atteso. Le inquadrature della Tv continuarono a indugiare su Kenny Dalglish che però improvvisamente scompare alla vista sommerso dall’abbraccio dei colleghi della panchina. In campo festeggiano tutti, esplode la gioia. Il Manchester United non c’è l'aveva fatta. Non era riuscito a segnare il goal che gli avrebbe fatto vincere un nuovo titolo. La difesa del West Ham tenne testa fino alla fine. Tim Sherwood e Colin Hendry alzarono al cielo una copia del trofeo sponsorizzato Carling che la Football Association nel dubbio aveva spedito anche a Londra. Ma quella resterà chiusa nel buio di uno sgabuzzino, mentre quella inviata a Anfield brillava nel cielo di Liverpool. “ Arte et Labore”..


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di Sir Simon

I Mandarini di Scozia


Un camion di sabbia, una moglie bizzosa e una breve passeggiata. Ecco cosa potrebbe essere il Dundee United. Alle volte il destino, nel calcio come nella vita, è legato a fattori e contingenze che mai ci saremmo immaginati ma che sorprendentemente pur vedendoli entrare dalla porta di servizio della storia, senza attribuirli sul momento troppa importanza, ne escono fondamentali dal portone principale. Oh, certo se poi la città in questione è chiamata anche “Discovery City” ovvero per i meno abbienti di inglese città della scoperta, non bisognerebbe sorprenderci più di tanto di certe curiosità. Come quella per esempio che a sorreggere Dundee ci pensi una lastra di basalto, lasciata in eredità al paesaggio scozzese da un vecchio vulcano ormai estinto; la sola città della Scozia affacciata verso sud, il che le assicura il clima più mite della regione. Qui il sole non è timido come altrove, e le temperature tendono a mantenersi di circa qualche grado più elevate rispetto alla granitica e gelida Aberdeen, dove “gli uomini sono uomini, e anche le pecore sono nervose”. Insomma gli inverni tutto sommato, non sono così rigidi come quelli cui il resto della Scozia è abituata, grazie alla vicinanza del mare e all’abbondanza di salsedine. Poco fuori città poi, una catena di dolci colline riesce ad arginare le nevicate, e mentre le cime sono spesso candide, Dundee resta immune dalle precipitazioni godendosi le bianche vette in lontananza. Abbiamo parlato di scienza, di scoperte, ma senza offendere nessuna attività universitaria, e senza rimettere in mare il vascello usato durante le esplorazioni dell’Antartico da Robert Falcon Scott, qui dobbiamo parlare di una delle due più importanti squadre di calcio cittadine, ovvero quella citata all’inizio: Il Dundee United Football Club, non me ne vogliano quelli dei Dees, i vicini di casa, forse troppo vicini, tanto che bastano due passi non metaforici, per visitare entrambi gli stadi. I più attigui del Regno Unito. Un derby lungo appena duecento metri, forse non innervato di dogmatica fede come quello di Glasgow, ma comunque carico di suggestione, di rivalità e storie da raccontare. Duecento metri che invitano a fare una passeggiata. Ecco subito una delle tre chiavi di volta citate all’inizio. E, in ordine temporale l’ultima. Partire dalla fine a volte è utile per capire l’inizio. Succede che dopo diciotto mesi da allenatore del Dundee FC, il trentaquatrenne James “Jim” McLean, viene chiamato dai rivali cittadini dello United per sostituire l’iconica figura di Jim Kerr, un personaggio indimenticabile dalle parti di Tannadice Park, ma che l’era favolosa aperta da McLean tenderà a offuscare. Era il dicembre del 1971. Su Jim McLean concordano tutti. Difficile non essere d’accordo. Lui viene da Larkhall, una cittadina di pendolari seduta sulle rive del pittoresco Clyde a poco meno di quindici Km da Glasgow. Famiglia operaia e un periodo come apprendista falegname ad Ashgill. Nel 1956 lo chiama l’Hamilton Academical e inizia la sua carriera sportiva che lo vedrà indossare anche le maglie di Clyde, Dundee FC, e Kilmarnock. Un buon giocatore, e un carattere ruspante, probabilmente troppo irascibile, uno di quelli che hanno un parere su qualsiasi argomento e stentano a non farcelo sapere. Quando arriva nello spogliatoio dei Tangerines ha ancora i capelli neri e una calvizie avanzata che fatica a ricoprire con un decoroso riporto, ma la presenza scenica c’è tutta. Urla, s’impone, e avvia immediatamente una mirata politica di sviluppo giovanile. Con l’obbiettivo dichiarato di produrre più giocatori bravi possibile in seno alle giovanili del club nel corso degli anni a venire. Ma solo con la freschezza e l’entusiasmo della gioventù non si vince, non si sarebbe mai potuto scalzare quegli antipatici di Glasgow che da tempo immemore dominavano le scene dello Scottish Football. E allora, McLean usò tutta la sua conoscenza della scena nazionale per comprare anche giocatori esperti e smaliziati che gli consentirono di rimodellare sia la squadra sia lo stile di gioco in linea con il suo approccio mentale alle competizioni. Ma per il momento lasciamo stare l’era McLean, ci ritorneremo più tardi, ancora dobbiamo capire quando è perché nasce il Dundee United, e ci restano sempre da svelare gli altri due aneddoti iniziali.
L'origine del Dundee United risiede innanzitutto nella volontà indomita di creare una squadra di calcio in grado di soddisfare il desiderio di aggregazione sportiva della comunità di immigrati irlandesi, che si erano riuniti a Dundee dai primi anni del 1900. Ad essere sinceri c’era stato in precedenza un tentativo di fornire un richiamo "pedatorio" per la comunità, come per esempio tentò di fare il Dundee Harp. La fondazione del nuovo Club fu raggiunta grazie agli sforzi di un gruppo di imprenditori locali con chiare origini irlandesi, e verrà formalizzato nei primi mesi del 1909. Sarà questo il punto di riferimento definitivo. Si chiamerà Dundee Hibernian, in onore del sodalizio di Leith, e la forza trainante del movimento (accostamento simbolico perfetto) era un commerciante di biciclette del posto, un certo Pat Reilly, che sarebbe diventato primo Direttore del neonato club. Senza “notizzare” e essere troppo enciclopedici diciamo che la costituzione ufficiale porta la data del 24 maggio 1909. Il Dundee Hibernian prenderà in gestione il Clepington Park, subito rinominato Tannadice, da allora sede storica del Club. Non sorprenderà nessuno sapere che in rapporto alle fiere radici d'origine, che i primi colori scelti per le divise saranno il verde e il bianco. E a rafforzare la fratellanza di un popolo arriva la prima partita tenuta presso Tannadice Park che previde un amichevole, guarda caso proprio contro gli Hibs di Edimburgo, il 18 agosto 1909. Finì con un salomonico pareggio per 1-1 di fronte a una folla 7.000 spettatori. Primo marcatore della storia del club Jamie Docherty, che siglerà la rete della parità.
Il Dundee Hibernian presenta la domanda di adesione alla Lega scozzese nel 1909, ma il tentativo andrà a vuoto e i “terrors” trascorreranno la loro prima stagione nella Northern League. Raccoglieranno un po’ di argenteria nel frattempo, la Carrie Cup, un trofeo locale organizzato dai club del Forfarshire. In ogni caso l’anno seguente Pat Reilly e il suo Consiglio di Amministrazione riusciranno con successo nell’affiliazione alla Lega nazionale e nel giugno del 1910 la nuova stagione partì con un incontro con l'Athletic Leith a Tannadice Park. Nel corso degli anni successivi la squadra gradualmente migliorò le sue prestazioni e si sistemò stabilmente in Seconda Divisione, finché lo scoppio della prima guerra mondiale chiuse tristemente tutti i campionati scozzesi e non solo. Dopo qualche anno dal termine del conflitto il club rischiò di scomparire. Fu salvato dal fallimento da una cordata di imprenditori cittadini. Era l'ottobre del 1923. Si decise di cambiare il nome della squadra in Dundee United per attrarre maggiore interesse; fu considerato anche il nome Dundee City, ma vi furono vibranti proteste da parte degli acerrimi rivali del Dundee FC, che ovviamente non volevano che i vicini di casa si fregiassero di questo suffisso. Due anni dopo arriverà la prima storica promozione nella massima serie, ma conservare la categoria si mostrò subito impresa ardua e il club tornò abbastanza rapidamente nei bassifondi delle leghe scozzesi.
Il periodo immediatamente successivo al secondo dopoguerra, non portò con sé alcuna prospettiva imminente di successo per il Dundee United. Terminato il periodo di Peter McKay il capocannoniere di tutti i tempi con 158 reti in sette anni che però non portarono alcun trofeo, ecco la svolta del 1959. Arriva un nuovo manager, Jerry Kerr e qualche soldo in cassa in più grazie al fondo "Taypools" per la riqualificazione dello stadio, che ebbe presto completata una nuova stand con un sensibile miglioramento per tutti gli altri settori. C'era anche più denaro per pagare gli stipendi, per le spese di trasferimento e per trattenere alcuni giovani talenti emersi nell’Academy. Kerr riportò lo United nella massima serie dopo 28 anni di assenza alla prima stagione in panchina, grazie al secondo posto raggiunto in Second Division. Fra i giocatori dell'epoca si ricordano Dennis Gillespie e Jim Irvine, i difensori Doug Smith e Ron Yeats (che poi ebbe anche l’onore di diventare capitano nel Liverpool negli anni sessanta). Iniziarono le prime avventure nelle coppe europee con buoni risultati, poi a testimoniare la crescente reputazione del club arrivano degli inviti. Nel 1967 infatti, il Dundee United fu chiamato a partecipare a una tournee estiva denominata “Northern American Soccer League”. Due anni dopo un nuovo viaggio negli States: Sarà quello fatale. Quello della moglie bizzosa. Quello in cui l’opera di convincimento della consorte del manager Jerry Kerr ebbe i suoi frutti. Lui e la società vennero persuasi che il colore bianco della maglia adottato nel 1923 dopo la rifondazione avrebbe dovuto essere cambiato in una tonalità più accesa, più moderna, più luminosa. E allora, potere delle donne, nel 1969, ecco Il nuovo colore “mandarino” indossato per la prima volta in un gara pre-stagionale contro l'Everton nel mese di agosto. Prima di tornare a McLean, e alle sue imprese ci sono gli arabi di mezzo. Gli arabi? direte voi, non sarà un po’ presto? Il fatto è, che un altro dei soprannomi del club insieme al classico “Tangerines”, e al meno usato “Terrors” prevede il nomignolo “The Arabs”. L’aneddoto è straordinario. L'origine del termine a onor del vero non ha una risposta definitiva e avallata da tutti. E giusto però raccontare la versione più comunemente accettata che risale ai primi anni sessanta. L'inverno del 1962-1963 era stato particolarmente duro anche per Dundee, e allo United, era già stato negato il permesso di giocare delle partite, a causa del Tannadice Park completamente ghiacciato. Nel disperato tentativo di disputare almeno un incontro di Coppa di Scozia contro l’Albion Rovers nel gennaio 1963, la società acquistò un bruciatore United Tar, sul genere di quelli usati sulle strade per sciogliere gli strati di ghiaccio. La soluzione anti gelo funzionò a meraviglia, ma la superficie di gioco eccessivamente riscaldata perse completamente il manto erboso. Imperterriti, gli amministratori del club, ordinarono diversi camion carichi di sabbia, per rimodellare le asperità del campo, e ridipinsero alcune linee di gioco scomparse. Sorprendentemente, l'arbitro decise comunque di giocare nonostante il chiaro imbarazzo dei dirigenti locali. La partita finì in parità, ma da allora alcuni commentatori definirono lo stadio dello United come un deserto, e da lì l’appellativo goliardico di arabi. Al quale i sostenitori tuttavia, si affezionarono e se ne appropriarono rapidamente, e ogni tanto a rimarcare l’associazione assistono alle partite con il tipico copricapo mediorientale. A decretare il nickname ci pensò in via definitiva una fanzine del club uscita nel 1988. Ora torniamo ai fasti di Jim McLean. Quando arrivò allo United, la squadra aveva in bacheca meno trofei dei rivali cittadini del City. Un “onta” che fu lavata in breve tempo. Il Dundee United conquista la sua prima finale di Scottish FA Cup nella stagione 1973-74. Raggiunse anche un terzo posto nella Prima Divisione del 1977-78, e ancora nel 1978-79. Un avvertimento all’Old Firm, il presagio dei successi futuri. Il primo di questi fu la Coppa di Lega stagione 1980. Un affermazione ai danni dell'Aberdeen dopo un replay, bissata l'anno successivo con un altra vittoria nella manifestazione, simbolicamente ancora più importante, perché ottenuta in casa dei dirimpettai, al Dens Park proprio contro i dark blues. Mattatore dell’incontro Paul Sturrock con una doppietta e Davie Dodds che segnò in apertura. Punteggio finale 3-0. L’anno seguente altra finale, ma a Hampden non bastò il goal di Ralph Milne per avere ragione dei Rangers che s’ imposero per 2-1. Ma l’anno di grazia, resta e resterà quello della stagione 1982/83. Per certi aspetti fu uno shock di proporzioni sismiche. Se pensiamo al calcio scozzese come un unica sorgente dove si abbeverano avidamente solo Rangers e Celtic, l’intrusione del Dundee United non se l’aspettava davvero nessuno. Ma in quel giorno di maggio del 1983, il destino sapeva che era giunto il momento per far sedere sul trono di Scozia quei ragazzi con la maglia arancione listata di nero e il leone sul petto. Avrebbero dovuto solo battere i rivali del Dundee FC nell’ultima gara del campionato. In trasferta al Dens Park. Difficile, ma non impossibile, visto l’incredibile cammino degli uomini di McLean in quella stagione. Un campionato che iniziò con una bella vittoria interna contro l’Aberdeen per 2-0 e con un altrettanta bella partenza in trasferta grazie al pareggio a reti inviolate a Ibrox nel tempio dei Rangers. Qualche protagonista conviene citarlo. Hamish McAlpine per esempio. Il portiere. La leggenda narra che una volta McAlpine abbia rinviato talmente forte un pallone da Tannadice Park da farlo atterrare addirittura nello stadio del Dundee FC.
Leggenda metropolitana? Forse, ma non si può negare le qualità del numero uno che firmò per i tangerines nel 1966 e vi rimase per 20 anni prima di indossare le maglie di Dunfermline e Raith Rovers. Una linea difensiva che comprendeva David Narey (recordmen di presenze nelle competizioni europee e autore del bellissimo goal segnato con la nazionale scozzese al Brasile nei mondiali spagnoli), Paul Hegarty, nato attaccante e poi trasformato in difensore che concesse il giusto tasso di esperienza al reparto arretrato; Richard Gough, rosso coriaceo diventato anni dopo capitano dei Rangers, e per finire Maurice Malpas il ragazzo di Dunfermline con il suo incisivo da castoro che gli regalava un sorriso sornione. A centrocampo il pungente Derek Stark che purtroppo due anni dopo a causa di un grave infortunio fu costretto a lasciare il calcio, l’abile Ralph Milne, lo scoglio John Holt, Eamonn Bannon arrivato dal Chelsea nel 1979 per 165000 sterline, Ian Phillip, uno di quelli che conservò sempre il senso dell'umorismo beffardo in mezzo alla tirannia del “regno” di McLean. E davanti la coppia Davie Doods e Paul Sturrock. Il primo l’autentico battito cardiaco della squadra, il secondo regalò tutta la sua carriera al club di Tannadice debuttando a 17 anni e chiudendo la carriera a 32, dopo aver messo a segno in totale 109 centri. Memorabile, e importante la vittoria di aprile per 3-1 sui Rangers in casa. Fondamentale poi la gara contro il Morton, arrivata dopo un roboante successo interno contro il Kilmarnock per 4-0. Greenock non era mai stato un terreno di caccia felice per nessuno e la trasferta dei 5000 di Dundee fu essenziale per dare il giusto sostegno alla squadra. Nonostante l’uscita prematura per infortunio di Hamish McAlpine arrivò un altra significativa vittoria ancora per 4-0. Dopo i due poker ne arrivò un altro, il terzo consecutivo, stavolta contro Motherwell il 7 maggio 1983. Ora rimaneva un ultimo ostacolo. Il 14 maggio '83: DundeeFC- Dundee United.
Oltre 29.000 persone stipate al Dens Park a testimoniare 90 minuti di tensione e di speranza, di atmosfera e senso d’attesa. E il Dundee United diventò campione grazie a una splendida invenzione di Ralph Milne e a un rigore di Bannon, pronto a ribattere a rete la respinta corta del portiere avversario. Campioni di Scozia, segnando 90 gol, con un punto di vantaggio sul Celtic. L’anno dopo ci sarà la sfortunata partecipazione alla Coppa dei Campioni fermata solo nella semifinale di ritorno, in una partita pieni di dubbi, veleni e polemiche, all’Olimpico contro la Roma. Poi nel 1987 una cavalcata strepitosa fino alla finalissima di Coppa UEFA con gli svedesi del Goteborg, che però si imposero nel doppio confronto. Per ritrovare un successo degno di nota occorrerà aspettare l'FA Cup 1994 marcata dal goal di Craig Brewster ai Rangers, e il 2010, due anni dopo la morte dell’amato presidente Eddie Thompson, con una nuova conquista della Coppa di Scozia guidati in panchina da Peter Houston. I goal di Goodwillie e il doppio centro di Craig Conway spezzarono il sogno del Ross County che in semifinale aveva sorpreso tutti beffando nientemeno che il Celtic. Ma questa è un'altra storia, bella quasi come quella del Dundee United..


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di Sir Simon