lunedì 24 settembre 2012

1981. The Villans are back


A Birmingham batte il cuore profondo del football. Il calcio inglese vi ha fermato le lancette del tempo, su un quadrante di tradizione, pura e forte. Dal 1874. Da quando quattro ragazzi, giocatori di cricket decidono di trovare un passatempo che li tenesse impegnati fisicamente durante i mesi invernali. Si chiamavano Frederick Matthews, William Scattergood, John Hughes e Walter Price. Ancora non potevano immaginare quello che la storia avrebbe riservato a quel piccolo club appena fondato, che venne chiamato AstonVilla.

1981
In un maggio che sembra un Natale dell’anima, Dennis Mortimer, il capitano, barba gitana e cespuglio di capelli in testa, si affaccia dal balcone della Council House in Victoria Square, mostrando a una folla in delirio il trofeo della First Division. L’AstonVilla era tornato finalmente tra i grandi. Era tornato a vincere il campionato dopo 71 anni. Dopo quel lontano 1910, dopo aver calpestato anche i terreni meno nobili delle serie inferiori, dopo un avvincente testa a testa con il raffinato e bellissimo Ipswich Town di Bobby Robson.
Seguendo Witton Road si arriva a Witton Cross. Non un semplice incrocio. Da qui ci si collega alla Aston e alla Witton Lane. Da qui all’orizzonte appare la sagoma dello stadio, la casa di una vita, il Villa Park. Sarà proprio negli uffici signorili e vittoriani della sede del club, che Ron Saunders mise la firma sul contratto da allenatore dei Villans. Ad attenderlo c’era il campo d’allenamento di Bodymoor Heat, e la seconda divisione. Saunders era nato a Birkenhead, poco fuori Liverpool, nel 1932. In 13 anni di carriera come attaccante aveva segnato oltre 200 reti. Una volta con la maglia del Portsmouth si lesionò una vertebra del collo e solo qualche anno dopo si accorse del problema. Un duro, ma con la faccia del buon padre di famiglia. Un primo anno di conoscenze, di assestamento, e poi subito la promozione nella massima serie. Non solo. Nel 1975 e nel 1977 arriveranno anche due coppe di lega, e un assaggio d’Europa. Per un club che non riusciva a vincere niente da quasi quindici anni, davvero un grande risultato. E se non visto alla sentenziosa luce dei posteri lo sarebbe stato. Ma il destino aveva in serbo altri deliziosi programmi per i claret & blue. Imprese che paradossalmente iniziano con una dipartita dolorosa, quella dell’idolo Andrew Gray, che si accaserà al Wolverhampton Wanderers per la cifra record di 1,5 milioni di sterline. A rimpiazzarlo arriva Peter Withe, faccia da montanaro e annesso fisico da taglialegna, con alle spalle qualche buona stagione al Nottingham Forest e al Newcastle. Avrebbe dovuto fare coppia con Brian Little ma un serio infortunio al ginocchio fermò troppo presto la sua carriera, e Saunders promosse in prima squadra un prodotto delle giovanili, il biondissimo local boy diciottenne, Gary Shaw. In totale sarebbero stati 14 i giocatori della rosa dell’Astonvilla 1980/81. In porta l’esperienza di Jimmy Rimmer, protetto dai rocciosi centrali scozzesi, Allan Evans e Ken McNaught; ai lati Kenny Swain e Gary Williams; in mezzo al campo il barbuto Dennis Mortimer ed il giovane talento, con accanto due ali diversissime tra loro: L’agilissimo e guizzante Tony Morley, tipica wing inglese, ed il più difensivo e guardingo Des Bremner, assoluta chiave di volta tattica dello schieramento di Saunders. Ne uscì una formazione votata al dinamismo e a un football piuttosto spregiudicato e offensivo, grazie anche alle fantasie di Gordon “Syd”Cowans che deliziavano e ispiravano ambiente e squadra. La leggenda narrava che poteva far atterrare un pallone su una moneta da 6 pence da 40 metri. Mortimer dirrà che alla fine fu più semplice del previsto amalgamare quella squadra e condurla a traguardi importanti : “Mai una volta Ron ha alzato la voce, e noi abbiamo continuato a lavorare duro e fare le cose che lui ci chiedeva”. Una fiducia ricambiata. Tony Morley si accosta al pensiero del capitano: “E' stato uno spogliatoio fantastico, nessuno dopo la partita o nei giorni successivi parlava degli errori commessi ne tantomeno delle prodezze, pensavamo solo a allenarci bene per la partita seguente”.
Il campionato iniziò il 16 agosto a Elland Road e comincia male visto che i padroni di casa del Leeds andranno in vantaggio su calcio di rigore dopo appena due minuti. Ma il Villa reagirà con Tony Morley, che dapprima mette dentro con un tiro dall’limite dell’area, non senza aver ubriacato con la sua finta preferita il difensore in maglia bianca, per poi servire l’assist del goal vincente a Gary Shaw. Sono le premesse a quella che per entrambi sarà una grande stagione. Dieci reti per l’ala del Lancashire, diciotto per il ragazzo fatto in casa. A dirla con tutta sincerità probabilmente l'Ipswich di quell'anno era forse più forte dei Villans di Saunders, (non a caso la squadra di Robson riuscì nell’epica impresa di conquistare una storica coppa UEFA) come in effetti testimonieranno i due scontri diretti, e anche un terzo, il 3 di gennaio quando un goal di Mariner a Portman Road eliminò Withe e compagni dalla FA Cup. Ma con buona certezza furono proprio i tanti impegni a fiaccare l'Ipswich nel finale di campionato, ed infatti i tractor boys persero ben sette delle loro ultime dieci gare del torneo. A testimonianza della sorpresa che rappresentò quella squadra, che alla vigilia non era contemplata fra le favorite, va notato che "Match of the Day" scelse di riprendere le gesta dell' Aston Villa soltanto ad ottobre inoltrato per la roboante vittoria (4-0) sul Sunderland al Villa Park, dopo che forse il secondo successo esterno ottenuto sette giorni prima a Londra contro il Crystal Palace aveva iniziato a destare qualche piccolo “sospetto”. Seguirà un confortevole pareggio all’Old Trafford e soprattutto la vittoria esterna nel derby con il Birmingham City per 2-1. A St. Andrew’s andranno a segno Cowans su rigore (alla fine per lui i penalty messi a segno saranno 4) e il difensore Allan Evans. Arriveranno comunque altri ottimi risultati, un esponenziale crescita di pubblico (47998 contro il WBA l’8 aprile 1981) e anche qualche sconfitta di troppo, come quelle rimediate a Middlesbrough e Brighton, oppure quella più cocente a Anfield contro il Liverpool per 2-1. Ma come non ricordare però le vittorie del Goodison Park nella gara di ritorno per 3-1, o la secca vendetta sui reds per 2-0 nella partita del 10 gennaio grazie a Peter Withe e a un arrembaggio solitario del capitano Mortimer. Per finire anche il 3-0 al “Boro” alla penultima giornata, in una vittoria griffata, Shaw, Withe, Evans, che di fatto spense i sogni di gloria dell’Ipswich. L'ultima giornata il 2 maggio, l’AstonVilla aveva quattro punti di vantaggio, ma i blu del Suffolk tenevano acceso un flebile lume di speranza avendo una gara da recuperare a Ayresome Park. Di fatto vennero sconfitti, e il Villa scese a Highbury giocando più sull’onda delle emozioni, e sui giri dell’orologio, che sul rettangolo verde dove per altro l’Arsenal si imporrà per due reti a zero. Al triplice fischio, prevedibile invasione di campo, bobbies in chiaro imbarazzo, qualche “colorito” scambio di vedute con quelli della North Bank, e poi una colonna di auto e bus sulla M1 direzione Birmingham, in attesa della parata ufficiale per le vie del centro cittadino. L’AstonVilla è di nuovo seduto sul trono d’Inghilterra, ma il bello fu che non finirà lì…


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di Sir Simon

Fulham, tra sogni, utopie e una Finale di FA CUP


Affacciatevi sul Tamigi mentre attraversate Putney Bridge. Potreste vedere una maestosa famiglia di cigni scivolare elegante e silenziosa sulle acque del placido fiume. Provocazione emotiva. Perché fondamentalmente il romanticismo nella sua essenza è la condizione dell’uomo che si affida alle dolcezze del sentimento per sfuggire alle asprezze della ragione. Hanno abbattuto il vecchio Wembley e le sue torri, salvandone solamente l’apparenza e la parvenza. Le macerie di Highbury invece respirano ancora. E’ il progresso dicono. Sparisci storia, non sei più gradita. Sei anacronistica, senile, puzzi di rancido. E il fascino? Solo pelle raggrinzita di mille partite, maglioni di lana pesante e ridicoli palloni di cuoio scuro. Ma il carisma della leggenda? Vene varicose di vecchie tribune, buone solo per nostalgici come me. Quello era il calcio di una volta, stai invecchiando mi dicono. Vuoi per caso rimettere i riflettori degli anni settanta all’ Emirates Stadium? Lì ci vanno le famiglie. Sedute, comode, ordinate, pulite, sicure. Con attorno stewart educati, discreti, che non si inquietano mai, perché l’immagine è importante, che scherziamo. Come le maglie. Ogni anno riviste e corrette in nome della legge di un merchandising sempre più prioritario. Malinconia. Una tristezza non chiara, non definita. Una voglia di solitudine, un senso di grigiore, di vuoto interiore. E allora cerco conforto dal vecchio poeta seduto sulle rive del Tamigi. Meglio se in autunno, quando la breve camminata in mezzo agli alberi e alle case in stile di Bishop’s Park si colora di ruggine e sa di salmastro. Un tempo c’era un casolare fatto costruire nel 1780 da un certo barone William Craven. Un alloggio per il ludico divertimento di bizzosi aristocratici inglesi nelle loro giornate di caccia. Ma non solo spari. Sembra che anche altre attività sportive si svolgessero nei boschi che circondavano il Cottage. Quando nel 1888 un incendio lo distrusse, il Fulham scelse questo luogo ameno per costruire il suo nuovo stadio. Forse per non privare l’ambiente dei divertimenti che lo avevano contraddistinto. I lavori cominciarono nel 1894 e dopo due anni nacque il Craven Cottage. Facciata edoardiana in mattoni rossi, frutto della mente geniale di Archibald Leitch. Oggi della struttura originaria resta soltanto proprio la Stevenage Road o Johnny Haynes Stand, dal nome del celebre calciatore soprannominato “il maestro” che regalò tutta la sua carriera agonistica al Fulham. Il Fulham, certo. Verrebbe subito da cantare, “There’s only one club in Fulham..”. E’ l’orgoglio delle origini. D’altra parte questo è il più antico club di Londra, i vicini del Chelsea arrivarono dopo. Ventisei anni dopo, quel fatidico 1879 quando un gruppo di fedeli alla chiesa anglicana fonda il club dei “Cottagers”. Ma stiamo divagando troppo, perché il filone originale di questo racconto doveva prevedere il riassunto di quell’unico viaggio a Wembley. Di quel giorno di maggio del 1975, quando il Fulham contese al West Ham la coppa d’Inghilterra. Esattamente il 3 maggio 1975. E lo fece da squadra di seconda divisione, ma si trattò di una cenerentola accompagnata al gran ballo da due principi azzurri d’eccezione: Il capitano Alan Mullery, per anni gloriosa colonna del Tottenham, e niente meno che l’iconico Bobby Moore, il condottiero del mondiale 1966, nonché irripetibile mito proprio degli avversari di quel pomeriggio. In panchina Alec Stock, amatissimo dalle parti di Loftus Road per aver sdoganato negli anni sessanta il QPR da un mediocre anonimato. Uno che ebbe anche una fugace esperienza con il calcio italiano a Roma nel 1957 ma che non riuscì mai ad adattarsi venendo esonerato dopo quattro mesi, in concomitanza con l’aver perso il treno per la trasferta di Napoli. Quel Fulham era una squadra tutta composta da inglesi, se si eccettua la mascella volitiva dell’irlandese Jimmy Conway. La FA Cup 1974/75 prende la sua forma definitiva nel tradizionale terzo turno, un appuntamento da sempre imperdibile, uno di quei momenti benedetti, in cui Dio non solo deve salvare la Regina, ma anche tutto il calcio inglese. Il 4 gennaio ci furono subito vittime illustri. Tottenham Hotspur, Wolverhampton Wanderers, e Manchester City: i londinesi impattarono dapprima 1-1 al City Ground di Nottingham, per poi venire estromessi dal Forest fra le mura amiche di White Hart Lane per 1-0. I Wolves invece andarono direttamente fuori senza passare dal replay battuti in casa 2-1 dall’Ipswich Town. Stessa sorte per i citizens che crollarono a Maine Road, contro il sempre ostico Newcastle per 2-0. I detentori del Liverpool si imposero 2-0 sui vasai di Stoke, mentre il West Ham espugnò Southampton 2-0. Non mi sono scordato del Fulham. Per i bianchi fu un terzo turno più complicato del previsto. Ci vollero ben tre partite per piegare la stoica resistenza dell’Hull City. Tre settimane dopo è già tempo dei sedicesimi di finali, anzi da purista preferisco chiamarlo per quello che in realtà è, ovvero il quarto turno. Fu terreno di caccia per giant killer, che fecero due scalpi illustri. Il piccolo Walsall fece fuori davanti al suo pubblico il Newcastle per 1-0, e l’Ipswich Town che cominciava a scintillare di futura bellezza andò a violare il tempio di Anfield con il medesimo punteggio. Fu dura anche per gli Hammers, costretti da un brillante Swindon Town al replay che però si vide spegnere dai londinesi i sogni di gloria in casa propria. Assurdo, (ma solo se si esce dall’ottica inglese), l’impegno del Fulham contro il Nottingham Forest. Quattro partite quattro, dal 28 gennaio al 10 di febbraio, con ultimo decisivo successo per 2-1. Poche le emozioni invece che riservò il quinto turno, anzi no, perché i Cottagers andarono a sbancare Goodison Park contro un Everton che in quel momento veleggiava nella prima posizione della massima serie. E non scordiamoci che lo fecero da squadra di categoria inferiore. Nel derby del Boleyn Ground invece vittoria sofferta del West Ham sul QPR. Un successo quest’ultimo che entra in scia con la stracittadina del turno successivo di sabato 8 marzo dove il favoritissimo Arsenal, dovette fare i conti con l’irriguardosa ispirazione dei claret&blue di Upton Park. Alan Taylor in giornata di grazia mise a segno una decisiva doppietta che cancellò i gunners dal tabellone della coppa. L’Ipswich continuò il suo stato di grazia facendo fuori in due incontri il Leeds United di Allan Clarke e John Giles. Per il Fulham l’insidia si chiama Carlisle United, ma una rete di Les Barrett in trasferta scacciò ogni dubbio e ogni timore. Gli accoppiamenti per le semifinali del 5 aprile mettono di fronte West Ham- Ipswich Town al Maine Road, e Fulham- Birmingham City a Hillsborough. A Manchester la contesa si chiude a reti inviolate, mentre a Sheffield sarà ugualmente pareggio ma con goal. Mitchell per i cottagers, Gallacher per i “nasi blu”. Mercoledi 9 aprile si rigioca. Prassi di una liturgia consolidata e bellissima, persa nella frenesia inutile e asettica della coppa moderna. A Stamford Bridge ancora due goal di Taylor mandano avanti i martelli, al Maine Road che stavolta ospita Fulham e Birmingham finirà al 120esimo minuto dei supplementari grazie all’eroe di queste semifinali per gli “whites” John Mitchell. La finale. Wembley e i suoi centomila. La prima volta per il Fulham. L’emozione e qualche sbadataggine di troppo, tra il buffo e il grottesco, come quella degli accompagnatori della squadra che si erano dimenticati i parastinchi nei magazzini del Craven Cottage, e ci fu bisogno di ridurre con un seghetto quelli acquistati in un negozio nei dintorni dello stadio. Un Fulham che scese in campo con la consueta tenuta bianca dai baveri neri con il raffinato acronimo del club sulla maglia sottolineato dal ricordo dell’evento, altra tradizione meravigliosa e tutta british. I ragazzi di Stock non erano i favoriti anche se in campo la qualità non mancava e l’approccio alla gara non fu dei più timidi. Certo dall’altra parte oltre al già citato Taylor, spiccavano l’emergente Trevor Brooking, l’imperturbabile capitano Billy Bonds, e Frank Lampard, padre del futuro giocatore del Chelsea. E lentamente lo West Ham dopo un primo tempo incolore, incomincia a macinare gioco, fino a che nella ripresa la solita doppietta di Alan Taylor indirizza la coppa nel popolare east end. Al fischio finale del signor Pat Partridge, si chiude il sogno di quel Fulham, nell'attesa fin troppo paziente, di una chimerica prossima volta.

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di Sir Simon

sabato 22 settembre 2012

Glad All Over


Lo spicchio rosso e blu della Holte End è in festa. Un mare di folla che si agita, salta, e canta “Glad all Over”, al ritmo folle dell’incredulità. Uno striscione arrangiato, fatto probabilmente in qualche garage di una casetta a schiera costruita fra le colline del sud di Londra, viene alzato sulle teste di quelli delle prime file della gradinata e recita: “Thank You God, I Can Now Die In Peace “: "Grazie Dio, ora posso morire in pace". Il Crystal Palace aveva appena battuto il Liverpool 4-3 in una drammatica semifinale di coppa d’Inghilterra e per la prima volta si sarebbe giocato l’atto conclusivo della manifestazione a Wembley. Se il cielo è il regno delle aquile, il preludio all’impresa si poteva leggere nei segni di una dolce primavera inglese. All’ora di pranzo dell’ 8 aprile 1990 su Birmingham è una piacevole giornata di sole. Una luce diafana si distende sul Villa Park come a rivestirlo di una cornice dorata su cui la magia dell’ Fa Cup è pronta a disegnare una nuova meraviglia. E dire che quell’anno sembrava non ci fosse storia per le eagles contro i reds. Due partite di campionato e due sconfitte, compreso l’umiliante 9-0 subito a Anfield nelle prime giornate di campionato. Ma Steve Coopell da Allerton (Liverpool), vuole a tutti i costi riuscire a battere la squadra per cui aveva sempre fatto il tifo fin da piccolo. Nel 1984 diventò a soli 29 anni il più giovane manager del calcio inglese, e nelle dichiarazioni che precedettero il match si mostrò fiducioso nella capacità dei suoi uomini di sovvertire il pronostico. Sempre sotto la sua guida l’anno precedente il Palace si era guadagnato attraverso la porta secondaria dei play off l’accesso alla massima serie battendo il Blackburn Rovers, grazie a una grande rimonta casalinga che ribaltò la sconfitta di Ewood Park.

Crystal Palace. Palazzo di Cristallo. Una costruzione enorme in ferro e vetro che nel 1851 il Principe Alberto volle in occasione della prima esposizione mondiale tenutasi a Londra in Hyde Park. All'epoca la zona era circondata dalla campagna e abitata da londinesi aristocratici e influenti, molti dei quali non guardavano di buon occhio il progetto, tanto che le lamentele arrivarono sino alla Camera dei Comuni. La manifestazione però andò avanti ed anche con successo. Il palazzo era una struttura modulare all’avanguardia che escudeva grossi pilastri e muri portanti, per una superficie totale di 84000 metri quadrati. Troppi ad ogni modo. Anche per il vasto parco cittadino. Infatti tre anni dopo venne smontato e ricostruito in Sydenham Hill, nel Borough of Lewisham. Nel 1861 i dipendenti del Palazzo decisero di dare vita a una squadra di calcio, e la loro precocità fondativa gli permise dieci anni più tardi di essere addirittura tra i membri promotori della FA Cup, alla quale presero parte fino al 1876, nell’anno in cui la prima parte della storia di questo club si interrompe.

Ad essere sinceri il Crystal Palace aveva goduto di una sequenza di sorteggi piuttosto favorevoli per arrivare in semifinale. Il terzo turno parte il 6 gennaio 1990, in un umido pomeriggio invernale, di quelli dove la nebbia si nasconde per qualche momento per poi riapparire al primo calar del sole. E il crepuscolo su Selhurst Park si fa ancora più cupo quando il Portsmouth segna e chiude in vantaggio il primo tempo. Nella ripresa però la risposta dei padroni di casa è veemente. Prima Geoff Thomas da fuori area e poi il funambolico e caracollante colored Andy Gray su calcio di rigore ribaltano il risultato a favore del Crystal Palace. Su Geoff Thomas il biondo e roccioso centrocampista nativo di Manchester è giusto, anzi doveroso, aprire una parentesi che non riguarda esattamente la sua carriera sportiva, che comunque lo vede apparire non solo con la maglia delle Eagles ma anche con quelle di diverse altre quadre inglesi e perfino della nazionale, ma per la sua battaglia contro una forma di leucemia diagnosticata nel 2003 e che lo ha visto gagliardamente venirne fuori da vincente. Con la stessa grinta e determinazione di quella che mostrava nelle mischie furibonde della metà campo. Nel 2008 scriverà una bella autobiografia intitolata,” Riding Through The Storm”. Il sorteggio successivo accoppia i ragazzi di Coppell all’Huddersfield Town, e si giocherà ancora a Selhurst Park. Questa volta sarà una partita senza storia. Prima insacca Jeff Hopkins dall’ limite dell’area, poi un autorete di Lewis, poi la testa imperiosa di Mark Bright, infine una rasoiata di John Salako, e il poker è servito. Abbiamo menzionato Bright. Uno degli attaccanti che farà la storia del Palace. Oltre 200 presenze e più di novanta reti. Il padre era nato in quella stretta striscia di terra africana che si chiama Repubblica del Gambia, completamente circondata dal Senegal e dal fiume a cui da il nome. Si trasferisce a Stoke on Trent, sposerà una donna inglese e nel 1962 nascerà proprio lui. Mark Abraham Bright. E siamo già al 17 febbraio, siamo già al quinto turno, e il destino vuole che le aquile restino ancora nel loro nido londinese. Contro il Rochdale poteva apparire una passeggiata. Non lo sarà. Al Selhurst Park è il giorno della fiera delle occasioni mancate. Uno spreco che poteva costare molto caro e che a un certo punto faceva pensare tutti a un complicato replay esterno nei giorni successivi. E come spesso accade in queste partite salta fuori l’uomo che non ti aspetti. Su un anonima rimessa laterale spizzicata maldestramente da un difensore avversario la palla arriva al centro dell’area di rigore e soprattutto sul destro di Phil Barber che la gira in rete nell’angolo basso, 1-0. Adesso chiedere alla dea bendata un'altra partita fra le mura amiche sarebbe stato troppo, e infatti arriva la prima trasferta di coppa all’ Abbey Stadium di Cambridge. Non si gioca in casa, ma ancora una volta la squadra da affrontare, almeno sulla carta è più che abbordabile. A risolvere la contesa sarà l’indomito capitano Thomas che mette dentro di testa un pallone proveniente da un calcio d’angolo. Nei minuti finali “un certo” Ian Wright poteva aumentare il bottino dei suoi ma sbaglierà un goal che ai più sembrava fatto, mentre a Salako viene annullata una rete per un dubbio fuori gioco. Fatto sta che il Crystal Palace batte il Cambridge United e approda alla seconda semifinale della sua storia dopo quella del 1976 persa a Stamford Bridge contro il Southampton.

L'attuale Crystal Palace FC nasce nel 1905, e non ha nessun legame diretto con il precedente, semplicemente intendeva giocare in affitto, sul campo dell'adiacente struttura di Sydenham Hill ovvero il Crystal Palace Sports Ground; da questo semplice contesto nasce la decisione di ribattezzarlo Crystal Palace football club. Ruolo chiave nella fondazione lo assume quello che in quel momento è sicuramente uno dei club più importanti e seguiti dell'Inghilterra di inizio novecento: l'Aston Villa, dal quale mutua i colori sociali. Edmund Goodman, ex giocatore dei villans costretto da una gamba amputata alla carriera dirigenziale, è infatti molto amico della dirigenza di Villa Park. Rivestirà la funzione di manager ininterrottamente dal 1907 al 1925. Nei primi anni però le aquile non volano ancora. Il nick name della squadra infatti richiama solo il nome del sodalizio. Glaziers (vetrai). Giocano nella Southern League, e si barcamenano tra le serie minori raggiungendo al massimo la seconda divisione nazionale. Tra le due guerre mondiali esattamente nel 1924 l'errante Crystal Palace FC trova la sua sede attuale a Selhurst Park. Lo stadio sarà frutto ancora una volta di un disegno di Archibald Leitch, anche se le limitate possibilità economiche del club priveranno dal progetto la celeberrima cupoletta o “gable” dalla tribuna principale. Negli anni trenta mette la firma con la casacca dei Glaziers uno dei più grandi e prolifici bomber di sempre, Peter Simpson uno da 165 gol in 195 partite a cui si aggiunge il record storico nella stagione 1930-31 di 46 gol in 42 partite. Il Crystal Palace approda nuovamente in seconda divisione solo nel 1961 dopo un assenza di 40 anni, e finalmente nel 1969 fa il suo esordio nella massima divisione nazionale. Sono gli anni di Jonny “Budgie” Byrne, chiamato cosi per il suo incessante parlare dentro e fuori del campo. Fisicamente prestante, capello corto da ufficiale, con una discendenza irlandese alle spalle fu chiamato anche a vestire la gloriosa maglia bianca della nazionale. Ma quelli sono anche gli anni di Bert Head. Con lui in panchina arriverà il secondo posto dietro al Derby County e la già citata promozione in First Division. Il manager arrivato dal Bury resterà fino al 1973 riuscendo nella non facile impresa di mantenere il Crystal Palace sempre in prima divisione. Nel 1973 uno storico 5-0 sul Manchester United é però il canto del cigno di una squadra che nel giro di due stagioni sprofonderà tristemente in terza divisione.

“ Mi raccomando ragazzi, non vi lasciate sfuggire Rush. E’ da lui che mi aspetto i pericoli maggiori.” Le profetiche parole di Steve Coppell risuonano nel chiuso degli spogliatoi del Villa Park. Siamo tornati all’inizio, siamo tornati a quel fatidico 8 aprile 1990, il giorno della semifinale contro il grande Liverpool di Kenny Dalglish, detentore del trofeo e che di lì a poco si sarebbe laureato ancora un volta campione d’Inghilterra. E infatti dopo nemmeno un quarto d’ora Steve Mc Mahon il dinamico alfiere della mediana del Liverpool, recupera un pallone in mezzo al campo e sul filo del fuori gioco serve un pallone invitante al bracconiere gallese che non si lascia sfuggire l’occasione per portare in vantaggio i reds. Ora sembra dura. Durissima. Quel Liverpool per l’occasione in maglia grigia griffata “adidas” e sponsorizzata “Candy”non era certo squadra che poteva essere rimontata tanto facilmente. Gente come Peter Beardsley, Ronnie Whelan, John Barnes, Ray Houghton, erano un muro rosso, esperto e ghignante che già pregustava la finale. Il primo tempo si chiude con il vantaggio del “Pool” per una rete a zero. Ma i fuochi d’artificio devono ancora arrivare, e saranno sfavillanti. In apertura di ripresa, John Pemberton, il biondo terzino del Palace con la faccia da attore americano degli anni cinquanta, si inventa un cross che John Salako si vede ribattere dalla retroguardia del Liverpool, ma è lestissimo Bright sotto porta a mettere dentro. Siamo 1-1. Sull’onda dell’entusiasmo, il Palace si esalta. Dalglish intanto aveva dovuto sostituire Gary Gillespie durante l'intervallo a causa di un infortunio e aveva inserito in difesa un timoroso Glenn Hysen, mentre le geometrie di Geoff Thomas assistito da Pardew e Gray iniziano a strappare il controllo del match al Liverpool. Thomas ha anche una grande occasione per portare avanti i suoi, ma Grobbelaar è attento e sventa la minaccia. Comunque sia il vantaggio delle eagles è nell’aria. Al 69’ Alan Hansen spinge fallosamente Bright. Sulla mischia susseguente al calcio di punizione Gary O’Reilly uno dei centrali della retroguardia di Coppell segna in mischia. Incredibile. 2-1 per quelli di Londra sud. Musica per i poeti del football. Non ha caso forse sulle maglie del Palace campeggia la sinuosa scritta “Virgin”. Dieci minuti dal termine. Troppi per sperare di farla franca. E’ il forcing dei reds ottiene rapidamente successo quando Mc Mahon su assist di Venison fionda da venti metri un bolide alle spalle dell’incolpevole Nigel Martyn. Ma i guai non sono finiti, perché il sogno sembra frantumarsi definitivamente due minuti dopo il pareggio, perché mister George Courtney da Spennymoor assegna al Liverpool un calcio di rigore per un fallo di Pemberton su Steve Staunton. Polemiche, rabbia, frustrazione, e mani sui capelli quando John Barnes con la consueta freddezza riporta quelli di Anfield in vantaggio. 3-2. “Looks like Liverpool are heading to Wembley", "sembra che quelli del Liverpool si stanno dirigendo a Wembley", dice John Motson ai microfoni della BBC, mentre esplode il classico“ YOU'LL NEVER WALK ALONE ”. Ma a un certo punto della canzone “Walk On” si interrompe bruscamente perché Bruce Grobbelaar non allontana con decisione un pallone che sembrava innocuo e Andy Gray ne approfitta per il boato dei tifosi in rosso blu. Cardiopalma. Si va ai supplementari sul rocambolesco punteggio di 3-3. E qui accade il miracolo. Uno di quegli episodi che modificano lo scorrere naturale degli eventi, per alimentare la leggenda e far salire sugli altari della cronaca nomi buoni in quel momento solo per gli annuari calcistici. A poco più di nove minuti dal termine dei supplematari, un corner deviato leggermente da Andy Thorn arriva sulla testa bionda di Alan Scott Pardew, e il ragazzo di Wimbledon segna, scaricando l’adrenalina, in un esultanza da danzatore maori. Palace 4 Liverpool 3. La banda di Steve Coppell è sorprendentemente in finale. Lacrime, abbracci, e dagli spalti uno struggente “Que sera sera, whatever will be, will be, We’re going to WEM-BER-LEY, que sera, sera.."

Nei primi anni metà settanta con l’avvento in panchina di Malcom Allison avviene la trasformazione del club, nella forma e nei modi di come é conosciuto adesso; abbandona i colori di famiglia claret & blue stile Aston Villa, per passare ai più vivaci rosso brillante e bluette, gli ex-vetrai diventano delle più ben più aggressive aquile. Il crest viene infatti sormontato da un aquila che ghermisce un pallone volando sul palazzo di cristallo. Allison, ex grande calciatore del West Ham, sorriso sornione, cappotto scamosciato e cappello da eccentrico ispettore di polizia, resterà a Selhurst Park nonostante due retrocessioni consecutive fino al 1976, l’anno della semifinale di FA Cup. E insieme a lui se ne andrà Peter Taylor che in tre anni si era preso il lusso di segnare ben 33 reti con la maglia dai nuovi colori del Palace. Nel 1976 viene nominato manager Terry Venables. Con lui la squadra tornerà subito in seconda divisione. Una stagione di affiatamento ed ecco la nuova promozione, contrassegnata anche dal record di presenze a Selhurst, per la partita contro il Burnley quando i tornelli registrarono oltre 51000 spettatori. L’anno successivo, sempre sotto la sapiente guida di “El Tel”, arrivò il tredicesimo posto finale in First Division dopo aver saggiato addirittura la testa della classifica a fine settembre. Venebles lasciò il club, in circostanze non molto chiare, l’ottobre successivo, per andare ad allenare il Queens Park Rangers in Seconda Divisione; le redini del Palace vennero nuovamente prese da Malcolm Allison, che, reiteratamente, retrocesse ancora, sebbene non finì il campionato sostituito da Dario Gradi. Ma anche la futura leggenda del Crewe non ebbe molto successo e sulla panchina delle aquile è il momento da player-manager di Steve Kember, icona locale, essendo nato a Croydon e avendo fatto tutta la trafila giovanile e la prima parte di carriera proprio nel Palace. Centrocampista dall’ esuberante agonismo, nonostante la salvezza con un turno d’anticipo e un quinto turno in FA Cup, nell’estate 1982 Ron Noades lo rimpiazza con l’impopolare Alan Mullery, sostituito a sua volta da Dave Bassett che passerà alla storia per i famosi “ Four day”, i quattro giorni dopo i quali infatti decise di dimettersi per tornare al Wimbledon della crazy gang. Incominciava l’era Coopell.

La finale, già. Ma prima bisogna incidere un disco. “Glad all Over” la canzone scritta da Dave Clark tifoso del Palace, fondatore dei “The Dave Clark Five” , e adottata dai tifosi nel 1964. Il 12 maggio 1990 la zona di Selhurst Park si risvegliò con l’infantile gioia di chi è alla sua prima volta, ma anche con i brividi di chi sa se mai ce ne sarà un'altra. In ogni caso non poteva essere un sabato normale quello. Wembley stava aspettando, il tempio bianco e granitico era in attesa. Un miraggio ormai concreto, dei migliaia di tifosi che stavano arrivando sui treni provenienti da Norwood Junction verso la stazione Victoria, da Thornton Heath, e da East Croydon. Poi tutti sulla “tube” direzione Wembley Park. Si mescolarono ai tifosi del Manchester United e insieme a loro cantarono “Abide With Me”, forse, anzi sicuramente con un trasporto e un emozione maggiore, e poi via non c’è più tempo per i sentimentalismi, si gioca, e naturalmente i red devils di Alex Ferguson sono i favoriti d’obbligo, seppure dalle parti dell’Old Trafford un trofeo in vetrina manchi da ormai cinque anni. Entrambe le squadre erano state coinvolte in drammatiche semifinali e la finale prenderà la stessa strada. Al 17 ', il Crystal Palace va in vantaggio con Gary O'Reilly che di testa sfrutta un calcio di punizione. Lo United reagisce al 35 '. Brian McClair s’invola sulla fascia destra e recapita una pallone d’oro sul secondo palo, dove il capitano Bryan Robson in attesa pareggia l’incontro . E’ 1-1 alla fine primo tempo. Nella ripresa i diavoli rossi vanno in vantaggio. Un tiro-cross di Neil Webb trova per strada l’accorrente Mark Hughes che spara nell’angolo basso. Ma Steve Coppell tira fuori il coniglio dal cilindro, anzi l’attaccante dal cilindro. Ian Wright . In dubbio a causa di un infortunio, avrà un impatto clamoroso sul match e siglerà al 72’ la rete del pari aggirando un legnoso Pallister, poi nel primo tempo supplementare si avventa su un traversone di John Salako, e sfruttando un uscita indecisa di Jim Leighton mette in goal di interno destro. Wright venne portato al Crystal Palace dal talent scout Peter Prentice che vide giocare il ragazzo di colore nato a Woolwich per i dilettanti del Dulwich Hamlet. Un autentica pantera dal palleggio raffinato che segnerà più di 90 reti fra coppe e campionati con le eagles, per poi fare la fortuna dell’Arsenal quando l’anno successivo fu acquistato dal club di Highbury per 2,5 milioni di sterline. Le speranze del Palace durano sette minuti, quelli intercorsi dal goal di Wright al pareggio di Hughes che significò pareggio e ripetizione. A fine gara ci fu poco tempo per riordinare le idee, per discutere sull’andamento della partita, sui se e sui ma, la priorità per i tifosi fu quella di disporsi ordinatamente ai botteghini dello stadio per l’acquisto del biglietto del replay che si sarebbe disputato la settimana seguente. Fu una partita che non regalò l’eccitazione e la trepidazione del primo incontro. La coppa se ne andò a Manchester grazie a un goal del terzino Lee Martin, che regalò il primo fondamentale successo a Sir Alex Ferguson. Il Crystal Palace tornò a Wembley anche l’anno successivo, ma per un trofeo minore, la Full Members Cup, che fra l’altro riuscirà a vincere. Poca roba, o forse abbastanza, visto la scarsità dell’argenteria nell’nido dell’aquila. Ma quel volo, quella stagione, nessuno se la scorda. Glad all Over.


Sir Simon

palacefans1990

lunedì 10 settembre 2012

Bristol, fra pirati e pettirossi

Altro bellissimo racconto di Sir Simon!!


“I tifosi che sabato andranno alla partita tra Bristol City e Bristol Rovers, sono invitati a comportarsi in modo che il match possa essere ricordato esclusivamente come un "grande spettacolo di sport". Parole e speranza del comandante in carica del corpo di polizia di Avon e Somerset, Andy Francis. Il 4 agosto 2012 si è giocato una stracittadina in onore del difensore dei "Robins" Louis Carey, il capitano con oltre seicento partite alle spalle. Il suo testimonial match. Ad Ashton Gate sono accorsi in 9000. E' finita 3-0 per il City, ma i problemi non sono mancati, anche se la massiccia presenza delle forze dell'ordine ha evitato incidenti pesanti. Alla fine solo qualche arresto, e centomila sterline di denaro pubblico spese per la sicurezza che hanno innescato diverse polemiche. Bristol City contro Bristol Rovers. Robins contro Pirates. Quando le due parti si erano incontrate l'ultima volta era il 2007 e si giocava per il "Johnstone Paint Trophy" (anche conosciuto come "Football League Trophy"). Al "Rover Memorial Stadium", ci fu un invasione di campo dopo che i padroni di casa dei Rovers, chiusero la gara con un importante vittoria sui loro acerrimi rivali.
Bristol. Un po' Amsterdam, un po' Bombay. E poi scorci di Londra, angoli di Genova, le scalinate di Oporto, il calore di Kingston. Una città di mare che si nasconde dietro le ultime anse del canale, mentre da est rimonta l'eco delle onde. Gli antichi docks screpolati dal tempo, il nuovo fronte del porto che è un trionfo di musei, di spazi, di luce. Le case georgiane che erano l'orgoglio dei ricchi mercanti. Strade strette e cortili che appaiono e scompaiono come per magia. La prestigiosa università con sessantamila studenti, le chiese austere, i graffiti sui muri e la musica. Quel crogiolo di razze, di colori e di storie, sempre diverse. Ed è attraverso questa porta che l'Inghilterra ha scoperto il mondo e secoli fa se lo è portato a casa. Perché ci sono sere che a Bristol, lungo le vecchie banchine, si respira lo stesso profumo d'avventura che accendeva la fantasia di Louis Stevenson, venuto qui da Edimburgo per ritemprare la sua salute cagionevole. Dicono anche che Daniel Defoe ci abbia scritto Robinson Crusoe, e che sempre qui Long John Silver reclutasse marinai. Qui a Bristol, all'ombra storta del campanile di Temple Church.
“Goodnight Irene” si canta nella zone nord della città. Una canzone diventata l'inno del “Bristol Rovers F.C.”, club caratterizzato da un passato sportivo poco glorioso (a parte i quarti di finale di F.A. Cup raggiunti nel 1958 e nel 2008 grazie a una rete di Ricky Lambert al Southampton) e da un presente non certo eccelso in League Two. La società venne fondata da cinque insegnanti in un'assemblea tenutasi in un ristorante del quartiere di Eastville nel Settembre del 1883 e fu, in un primo momento, denominata Black Arabs F.C., per poi mutare denominazione in Eastville Rovers l'anno seguente ed in Bristol Eastville Rovers nel 1897, prima di acquisire l'attuale denominazione nel 1898. I suoi tifosi, conosciuti come “Gasheads” (“teste di gas”), termine dispregiativo coniato dai supporters della squadra cittadina rivale del Bristol City per la vicinanza del vecchio stadio dei Rovers ad un gasdotto particolarmente maleodorante, cantano il loro inno durante ogni partita, dedicando la “buonanotte” alla “ciurma dei pirati” scesa in campo e vestita con le originali casacche a quadroni bianco azzurri adottate ininterrottamente dal 1931. Mentre il nick name è un chiaro richiamo al patrimonio marittimo locale.
"Goodnight Irene" appartenente al genere folk, fu scritta nel 1933 dal cantante/musicista blues statunitense Leadbelly, nome d'arte di Huddie William Ledbetter. E' una canzone triste e malinconica, il cui testo, parlando di pene d'amore, esprime tristezza e frustrazione. Fu prima nella classifica delle vendite del 1950 e resistette in tale posizione per altre sei settimane dopo la morte dell'autore. L'anno successivo la band folk The Weavers registrò un singolo della canzone che occupò la prima posizione nella hit parade per più di 25 settimane ed il loro successo ispirò molti artisti a preparare una propria versione della canzone.
Fu cantata per la prima volta allo stadio nel 1950, durante uno spettacolo di fuochi pirotecnici, esattamente la sera prima dell'incontro casalingo contro il Plymouth Argyle, vinto agevolmente dai Rovers, i cui tifosi intonarono un coro che recitava “Goodnight Argyle” riferito ai “dormienti” calciatori del Plymouth; da allora questa canzone divenne l'emblema sonoro della tifoseria, con una propria versione della canzone. Certo che anche nella zona a sud ovest della città nei famosi anni degli “Eight Ashton Gate”, una canzone inquieta e mesta non ci sarebbe stata poi cosi male. Stiamo parlando di quando il City di Alan Dicks nel 1976 aveva ottenuto la promozione in quella che ancora si chiamava First division, e non aveva badato a spese pur di assicurarsi una squadra che gli consentisse la permanenza nel massimo campionato del calcio inglese, vincendo nel 1978 anche la Anglo-Scottish cup. Ma dopo quattro anni il sogno si interrompe con la retrocessione. Ma il dramma non finirà lì. Sarà infatti la prima di tre consecutive che nel 1982 portano il Bristol City in Quarta divisione, l’ultima prima dei dilettanti. In panchina arriva il 35enne Roy Hodgson (l'attuale tecnico della nazionale), deciso a far fruttare in patria l’esperienza maturata in Svezia alla guida dell’Halmstads. Non ne avrà modo né tempo. In quei giorni lo spettro più immediato è quello della scomparsa del club, mai così a rischio dal 1897, anno della fondazione dei pettirossi. Un nomignolo facilitato ovviamente dal colore delle maglie che richiamavano anche al coraggio delle truppe garibaldine. Hodgson se ne andrà, e con la dichiarazione del fallimento del Bristol City viene costituita una società (la Bcfc), cui viene concessa la possibilità di ereditare dal vecchio City, giocatori, diritti sportivi e lo stadio Ashton Gate, proprio allo scopo di tenere in vita la società sotto altra forma giuridica. Il salvataggio si compie poche ore prima della scadenza fissata da tribunale e federazione per la rinuncia di otto giocatori ai compensi previsti dai loro contratti pluriennali (in alcuni casi addirittura dieci anni). Per il loro gesto, Peter Aitken, Gerry Sweeney, Julian Marshall, Chris Garland, Jimmy Mann, Geoff Merrick, David Rodgers e Trevor Tainton passeranno alla storia come “gli otto di Ashton Gate”. Encomiabili e benemeriti. Per loro abbandonare la squadra è un sacrificio non solo economico, ma sentimentale. Non si vive di solo denaro. Gerry Sweeney giocava lì da undici anni: una leggenda locale protagonista della promozione in Prima divisione nel 1976, che non aveva abbandonato la barca nonostante le tre retrocessioni di fila. Andarsene senza soldi né grazie è stato l’ultimo gesto di amore verso un club al quale ha dato molto più di quanto ricevuto. Da allora per il Bristol City è stata mera sopravvivenza, spezzata da momenti di gloria effimera ma esaltante. Come la vittoria del Football League Trophy a Wembley nel 1986 contro il Bolton, guidati in panchina da Terry Cooper, o come l’eliminazione del Liverpool ad Anfield nel replay del terzo turno di FA Cup il 25 gennaio 1994 quando il gol di Brian Tinnion al 66′ costò la panchina del Liverpool a Graeme Souness. Poi un onesta mediocrità. E i tifosi non si sentono tranquilli. Ma alla fine bisogna sempre fare i conti con il proprio passato, e Bristol è sempre stata questa. La porta delle avventure, non si sa mai come andrà a finire.

cityvrovers1957




di SIR SIMON