sabato 6 ottobre 2012

Gli anni del Turf Moor


Al termine del secondo conflitto mondiale, Brian Miller aveva appena otto anni e viveva a Burnley, in quell’Inghilterra industriale del nord che l’aviazione tedesca aveva sorvolato e colpito più di una volta nelle sue incursioni aeree. E così fra muri anneriti, fra simulacri di fabbriche sventrate, e palazzine adattate a rifugio antiaereo di fortuna, ogni giorno, accompagnato dai suoi genitori se ne andava per empori e panifici a comprarsi il fabbisogno quotidiano. Ma non potevano comprare tutto quello che volevano. Non tanto per mancanza di soldi. C’erano delle regole da rispettare. Esisteva, infatti, un libretto apposito chiamato “ration book” (libretto per le razioni) dove vi era riportato il limite dei viveri che potevano acquistare: 500 gr di burro, 500 gr di zucchero, tè, ma niente frutta e dolci. Le uova che vendevano nei negozi non erano fresche, solo chi aveva la fortuna di abitare in campagna vicino a una fattoria poteva comprarsele buone “di giornata”. Ma alla fine anche chi possedeva una fattoria, non era poi così fortunato in quel momento, perché se comunque si produceva cibo da solo, aveva l’obbligo di darne il 10% allo stato. All’inizio della guerra tutti si dovevano vestire di nero e avevano orari precisi per uscire da casa. Quando poi i raid aerei cessarono, il vincolo fu abolito fermo restando l’unico obbligo di non vestirsi di bianco. Una volta a Burnley bombardarono anche un parco, lo Scott Park in pieno centro cittadino, dove Brian ogni tanto andava a giocare e passeggiare. Da lì, quando non c’era troppa nebbia, e con una buona vista, si potevano intravedere in lontananza le tribune del Turf Moor, lassù a nord-est, oltre il canale che confluisce nel Brun. Quello era il sogno di Brian e di tanti altri ragazzini come lui. Giocare con la maglia dei “Clarets”. Lui ce la fece. Dopo essere stato assunto nelle giovanili del Burnley e aver trovato lavoro come fattorino per mantenersi, esordì in prima squadra nel 1956 in un incontro di FA Cup contro il Chelsea. Era un ragazzone forte e robusto dalla faccia gentile e giocava come difensore di fascia. Dedicò oltre quattro decenni della sua vita al Burnley. Quando nel 1960 il Burnley diventò campione d’Inghilterra, Miller giocò ogni partita di quella stagione, coppa compresa. Nel 1967 in seguito a un brutto infortunio, dal quale non riuscì mai più a riprendersi, divenne membro dello staff tecnico, coronando la sua carriera da dirigente nel 1979 quando la società lo invitò ad assumere la guida della squadra, subentrando al grande e indimenticato Harry Potts. Quello della fine degli anni settanta non era un momento felice per il club del Lancashire. Dopo una serie di alti e bassi, una retrocessione, una promozione, una Wembley sfumata nel 1974, un'altra retrocessione, la fine dell’esperienza di Jimmy Adamson e quella non fortunata di Joe Brown, era tornato in panchina Potts, lo stratega della vittoria del 1960. Due stagioni e poi il testimone a Miller, che però scivola malamente in terza divisione dopo un campionato a dir poco disastroso dove il Burnley non fu capace di vincere nemmeno una delle 42 partite in programma. Ostinatamente, e graziato dalla dirigenza, Miller riportò subito il club fra i cadetti, ma si trattò di un fuoco di paglia perché addirittura, nel 1985 dopo che Brian aveva lasciato a John Bond, i “clarets” finirono in quarta divisione. Un anno a ridosso del precipizio dei dilettanti, poi la ripresa, lenta, quasi impercettibile, che consentì al Burnley di raggiungere un piccolo record detenuto solo da Preston North End e Wolverhampton Wanderers, ovvero quello di vincere un campionato per ogni divisione professionistica. Si, perché come detto in precedenza, ci sono anche lampi di gloria vera dalle parti di Turf Moor, e qualche nome che abbiamo già menzionato ne fu parte integrante e decisiva. E allora, intanto, è giusto fare un salto temporale, perché stiamo correndo troppo e in maniera confusa, bisogna andare con ordine e tornare al 1882. L’embrione della genesi è di stampo rugbistico e le divise non avevano i colori attuali. Infatti nella prima partita ufficiale nell’ottobre del 1882, allorché il neonato club fu sconfitto 8-0 dall’Astley Bridge nella coppa della contea, le maglie presentavano una tonalità biancoblu. Solo nel 1911, per spirito d’emulazione nei confronti della squadra del momento, cioè l’AstonVilla, i colori mutarono in quelli simili al team di Birmingham. A questo punto i ricorsi storici non mancano. Bisogna annoverare un Nickname, anzi tre. “Turfites”,” Moorites” e “Royalites”. Ora, se i primi due sono facilmente riconducibili al nome dello stadio che sin dal 1883 vede, ammonisce, e benedice le gesta della squadra, il terzo è dovuto al destino che in due occasioni ha visto il Burnley associato a grandi nomi della famiglia reale. Nell’ottobre del 1886 il principe Alberto che si trovava in città per l’inaugurazione di un ospedale si recò in visita al Turf Moor, diventando così il primo reale a visitare uno stadio professionistico inglese. In seguito nel 1914 quando il Burnley conquistò la sua prima e finora unica Coppa d’Inghilterra, il trofeo fu consegnato al capitano da Re Giorgio V in persona, in questo caso si trattò del primo Re che premiava i vincitori della celebre competizione. Sette anni dopo, finite le ostilità della grande guerra, dove molti figli di Burnley restarono per sempre nel vento dei campi francesi, manager John Haworth regalò alla città del cotone la prima vittoria nel campionato inglese, nonostante un avvio da brividi con tre sconfitte nelle prime tre partite. Poi la striscia di 30 incontri senza mai perdere, un primato battuto solo in tempi recenti dall’Arsenal di Wenger. Era il Burnley del buon capitano Tommy Boyle, del portiere Jerry Dawson dallo sguardo pensieroso, del bomber scozzese Joe Anderson che le foto d’epoca ritraggono come uno scolaretto grassottello e indolente, ma che evidentemente in campo si faceva sentire, e se la cavava anche molto bene se si considera che in quell’anno mise a segno in totale ben 31 centri. Le stagioni da ricordare da lì in avanti non saranno molte, anzi a dire la verità nell’attesa dell’altro anno di grazia, quello del 1960, bisogna sforzarsi per trovare qualcosa di buono dalle parti di Turf Moor. Di delusioni invece se ne trovano. La retrocessione del 1930 per esempio, che la bella semifinale di FA Cup del 1935 non riuscì chiaramente a compensare. Alla ripresa delle attività agonistiche nel 1946 sembrò che il Burnley potesse tornare a vecchi splendori. Una finale di coppa persa 1-0 contro il Charlton a Wembley, un onorevole terzo posto nel 1948, e l’innesto nella squadra degli anni cinquanta di quei giocatori chiave che porteranno al trionfo del campionato targato 1959/60. Stiamo parlando di Jimmy Adamson e Jimmy McIlroy. Jimmy Adamson all’anagrafe James, era di Ashington. Le orecchie a sventola, un naso più da pugile che da calciatore, e sorriso da caricatura disegnato sul volto. Durante la sua carriera, dal 1947 al 1964, ha giocato solo con il Burnley, collezionando 426 presenze e segnando 17 reti. Fu ingaggiato nel gennaio 1947 dopo aver militato nella squadra della sua città e aver assaggiato carbone nelle miniere. Lo scoppio della seconda guerra mondiale frenò la sua carriera sportiva, che venne interrotta come a molti altri della sua generazione dal servizio militare, svolto nel suo caso nella Royal Air Force, che rimandò il suo debutto in campo al Febbraio 1951, quando entrò nella partita in trasferta tra il Burnley e il Bolton Wanderers. Non fu mai convocato in nazionale, dovette accontentarsi solo di alcune partite nella rappresentativa inglese B. Ma la sua ragione d’essere, fu quella di indossare la fascia da capitano della squadra nell’anno della vittoria del 1960, mantenendola fino al 1962 quando il Burnley raggiunse la finale della FA Cup, persa contro il Tottenham Hotspur. In quell'anno arrivò anche la nomina di calciatore dell'anno. Adamson formava una coppia a centrocampo con Jimmy McIlroy, sulla quale era centrato molto del gioco creativo del Burnley. McIlroy invece era un irlandese del nord, nato nei pressi di Lisburn, dove il fiume Lagan trafigge, col suo corso, il distretto della cittadina, tagliandola in due dopo aver attraversato un paesaggio favoloso fatto di colli, campi coltivati e borghi contadini. Il tutto nel cuore della Lagan Valley, dove la cittadina di Lisburn si immerge nella natura senza disturbarla, assorbendo i ritmi lenti e piacevoli della campagna. Inizierà la carriera nel Glentoran a Belfast, poi nel 1950 a 19 anni, Frank Hill, lo porta al Burnley e lo fa esordire contro il Sunderland al Roker Park nell’ottobre di quell’anno. Assomiglia un po’ a uno di quei saltimbanchi di strada che trovi nelle vie delle grandi città e che provano a intrattenere i passanti con qualche numero di magia, insieme all’immancabile cagnolino al loro fianco. Stupisce che a distanza di anni riguardando le sue foto, sia certamente invecchiato, e i capelli diventati bianchi come la neve, ma non abbia assolutamente perso quella briosità e allegria che lo hanno sempre contraddistinto nella sua vita. In dodici anni ai “Clarets” segna qualcosa come 112 reti. Quando nel 1963 fu venduto allo Stoke City molti tifosi ci restarono male, anzi malissimo, non tanto per essersi sentiti traditi dal giocatore che tanto gli aveva dato, ma semplicemente perché vennero a sapere del trasferimento solo attraverso le pagine di un giornale. In ogni caso il Burnley che vinse il campionato del 1959/60 resta la squadra iconica di questo lembo d’Inghilterra. I semi del successo furono piantati su un humus di squadra già fertile in un freddo gennaio del 1958 quando a Turf Moor arrivò Harry Potts. Uno che aveva prestato servizio nella RAF in India, e che giocò per il Burnley per qualche anno, prima di intraprendervi la carriera di allenatore nel 1958 in sostituzione di Billy Dougall. Appena una stagione e siamo finalmente a quel fatidico 1960. C'e da dire, che forse una delle cose peggiori della vita, è il non sapere quando è l’ultima volta di qualcosa, o quando qualcosa che ci entusiasma si avvicina alla fine. Non abbiamo mai saputo al momento giusto che quello era l’ultimo romanzo di un certo scrittore, o quello l’ultimo film di un certo regista. Troppo spesso quel che è l’ultimo risulta esserlo senza che possiamo prevederlo, e arrivati alla fine abbiamo la sensazione che quel che è stato non sia sufficiente, e di non aver sfruttato a dovere le giuste occasioni successive, se avessimo saputo che non ci sarebbe stata un altra volta... In aspetto strettamente calcistico il fatto che Il Burnley nel 1960 sia diventato campione, sa tanto di canto del cigno, di un club che se avesse voglia di tornare a sedersi sul trono d’Inghilterra dovrebbe di soppiatto entrare sotto le imponenti arcate di Westminster e implorare gli inservienti. Anche se a onore del vero due anni dopo la vittoria del 1960 arrivarono secondi a tre punti dal sorprendente Ipswich Town. Ma torniamo a quel campionato, che prese il via il 22 agosto 1959. Il Burnley non andò mai in testa alla classifica in quel campionato. Come no, direte voi, come diamine ha fatto poi a vincere. In realtà la squadra di Poots il primato solitario in testa al torneo lo raggiunse, ma solo all’ultima giornata, a Manchester contro il City, al Maine Raod, in un atmosfera carica d’adrenalina. La prima squadra ad uscire dal gruppo fu il Blackburn, gli odiati vicini di casa, che mantenne il primato solitario fino alla settima giornata, quando fu superato dal Tottenham, dal Wolverhampton e dallo stesso Burnley. Furono gli Spurs comunque a staccarsi in maniera importante e a condurre la classifica nelle giornate successive, tallonati dal Wolverhampton e dal West Ham e dal Preston. Queste ultime due squadre però sorpassarono il Tottenham alla diciassettesima giornata e condussero a braccetto fino al diciannovesimo turno, quando il Preston prese solitario la vetta, terminando il girone di andata in testa con un punto di vantaggio sul Tottenham. Alla prima giornata del girone di ritorno gli Spurs riprendono il comando della classifica allungando su un Preston in vistoso calo, mentre si candidò come rivale dei londinesi proprio il Burnley, secondo dalla ventiseiesima giornata con tre punti di ritardo sulla capolista. Il distacco rimase invariato alla trentesima giornata, quando il Burnley cedette il posto al Wolverhampton nel ruolo di rivale del Tottenham. Alla trentaseisima giornata il Wolverhampton raggiunse il Tottenham per poi staccarlo al quarantesimo turno. I Wolves conclusero il campionato al primo posto, ma furono superati dal Burnley, che, vincendo il recupero del match contro il Manchester City, si issarono in testa alla classifica vincendo il loro secondo agognato titolo con un solo punto di vantaggio, 55 contro i 54 dei rivali. Non possiamo esimerci dallo sfuggire dalle partite del “pathos” e del successo, contro le diretti concorrenti. Come ad esempio quella giocata in casa il 7 novembre 1959, quando un ispiratissimo e brillante Jimmy McIlroy, dispensò idee, rese concrete dai goal di Ray Pointer detto “Bombshell Blonde”, uno capace di sostenere una media da un goal ogni due partite, e John Connelly un altro che dava del “tu” alla porta avversaria e che probabilmente se non avesse speso troppo tempo a pettinarsi i capelli avrebbe anche segnato qualche rete in più. Quando arrivo al Burnley stava facendo l’apprendista falegname e aveva 18 anni. Nel 1964 per 56000 sterline si accasò a Old Trafford, e dal Manchester United arrivò nella nazionale campione del mondo di due anni dopo. Quel Burnley era un gruppo che meritò davvero di vincere il titolo. Lo dimostrò anche il 1 marzo con un'altra diretta pretendente, il Tottenham Hotspurs. Il Burnley si impose per 2-0 con due reti nella ripresa. Parole e musica del solito John Connelly. L’ultima giornata è però quella che è passata alla storia. E’ il 2 maggio 1960. Una folla di 65981 persone si accalcò sugli spalti. Fuori dai cancelli, anche un nutrito gruppo di sostenitori dei Wolves accorsi per tifare i citizens. Un lunedì di speranza e di paure. Sarà il giorno di Trevor Meredith e Brian Pilkington. Fu un inizio nervoso da parte di entrambe le squadre, non facilitato nemmeno nel controllo della palla, dalla difficoltà di indirizzare un passaggio preciso, a causa di un campo gibboso e con poca erba. Durante la mattinata era stato innaffiato ma evidentemente non in quantità sufficiente per garantire una morbidezza soddisfacente. Tuttavia il Burnley va in vantaggio subito. Dopo appena quattro minuti, Jimmy Robson serve il “tozzo” ma velocissimo Brian Pilkington che batte Trautmann. Il City non ci sta e perviene al pareggio con Harvey che non da scampo a Adam Blacklaw, il portiere che dopo aver vissuto per anni all’ombra di Colin McDonald aveva trovato posto da titolare proprio in questa stagione. Ma il Burnley vuole, e deve tornare avanti, e così in seguito a un fallo pesante di Ewing su Pointer, guadagna un calcio di punizione. Lo batterà Tommy Cummings e la sua traiettoria va a scovare proprio il punto in cui si nascondeva quel piccolo opportunista di Trevor Meredith, nella mischia, in bilico, fra leggenda e oblio. Andrà a segno e quel goal regalò la vetta della classifica e la coppa di campione d’Inghilterra al Burnley. Quando smise di giocare Meredith si dedicò a fare l’insegnante in una scuola primaria a Preston e chissà se ai suoi allievi ha mai raccontato la storia di quella notte. Una notte dove i tifosi all’unisono si lamentarono delle luci troppo forti di Maine Road che impedivano di seguire a pieno le evoluzioni di quella palla bianca, e allora tutti gridarono spazientiti, e si decise così per la sostituzione della sfera. Oggi la strada adiacente al Turf Moor si chiama Harry Potts Way, una delle stand è dedicata a Jimmy McIlroy. Impossibile dimenticarli, impossibile dimenticare quel Burnley."Pretiumque et causa laboris", Il premio è il risultato delle nostre fatiche.

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di Sir Simon

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