Al termine del secondo conflitto mondiale, Brian Miller
aveva appena otto anni e viveva a Burnley, in quell’Inghilterra industriale del
nord che l’aviazione tedesca aveva sorvolato e colpito più di una volta nelle
sue incursioni aeree. E così fra muri anneriti, fra simulacri di fabbriche
sventrate, e palazzine adattate a rifugio antiaereo di fortuna, ogni giorno,
accompagnato dai suoi genitori se ne andava per empori e panifici a comprarsi
il fabbisogno quotidiano. Ma non potevano comprare tutto quello che volevano.
Non tanto per mancanza di soldi. C’erano delle regole da rispettare. Esisteva,
infatti, un libretto apposito chiamato “ration book” (libretto per le razioni)
dove vi era riportato il limite dei viveri che potevano acquistare: 500 gr di
burro, 500 gr di zucchero, tè, ma niente frutta e dolci. Le uova che vendevano
nei negozi non erano fresche, solo chi aveva la fortuna di abitare in campagna
vicino a una fattoria poteva comprarsele buone “di giornata”. Ma alla fine
anche chi possedeva una fattoria, non era poi così fortunato in quel momento,
perché se comunque si produceva cibo da solo, aveva l’obbligo di darne il 10%
allo stato. All’inizio della guerra tutti si dovevano vestire di nero e avevano
orari precisi per uscire da casa. Quando poi i raid aerei cessarono, il vincolo
fu abolito fermo restando l’unico obbligo di non vestirsi di bianco. Una volta
a Burnley bombardarono anche un parco, lo Scott Park in pieno centro cittadino,
dove Brian ogni tanto andava a giocare e passeggiare. Da lì, quando non c’era
troppa nebbia, e con una buona vista, si potevano intravedere in lontananza le
tribune del Turf Moor, lassù a nord-est, oltre il canale che confluisce nel
Brun. Quello era il sogno di Brian e di tanti altri ragazzini come lui. Giocare
con la maglia dei “Clarets”. Lui ce la fece. Dopo essere stato assunto nelle
giovanili del Burnley e aver trovato lavoro come fattorino per mantenersi,
esordì in prima squadra nel 1956 in un incontro di FA Cup contro il Chelsea.
Era un ragazzone forte e robusto dalla faccia gentile e giocava come difensore
di fascia. Dedicò oltre quattro decenni della sua vita al Burnley. Quando nel
1960 il Burnley diventò campione d’Inghilterra, Miller giocò ogni partita di
quella stagione, coppa compresa. Nel 1967 in seguito a un brutto infortunio,
dal quale non riuscì mai più a riprendersi, divenne membro dello staff tecnico,
coronando la sua carriera da dirigente nel 1979 quando la società lo invitò ad
assumere la guida della squadra, subentrando al grande e indimenticato Harry
Potts. Quello della fine degli anni settanta non era un momento felice per il
club del Lancashire. Dopo una serie di alti e bassi, una retrocessione, una
promozione, una Wembley sfumata nel 1974, un'altra retrocessione, la fine
dell’esperienza di Jimmy Adamson e quella non fortunata di Joe Brown, era
tornato in panchina Potts, lo stratega della vittoria del 1960. Due stagioni e
poi il testimone a Miller, che però scivola malamente in terza divisione dopo
un campionato a dir poco disastroso dove il Burnley non fu capace di vincere
nemmeno una delle 42 partite in programma. Ostinatamente, e graziato dalla
dirigenza, Miller riportò subito il club fra i cadetti, ma si trattò di un
fuoco di paglia perché addirittura, nel 1985 dopo che Brian aveva lasciato a
John Bond, i “clarets” finirono in quarta divisione. Un anno a ridosso del
precipizio dei dilettanti, poi la ripresa, lenta, quasi impercettibile, che
consentì al Burnley di raggiungere un piccolo record detenuto solo da Preston
North End e Wolverhampton Wanderers, ovvero quello di vincere un campionato per
ogni divisione professionistica. Si, perché come detto in precedenza, ci sono
anche lampi di gloria vera dalle parti di Turf Moor, e qualche nome che abbiamo
già menzionato ne fu parte integrante e decisiva. E allora, intanto, è giusto
fare un salto temporale, perché stiamo correndo troppo e in maniera confusa,
bisogna andare con ordine e tornare al 1882. L’embrione della genesi è di
stampo rugbistico e le divise non avevano i colori attuali. Infatti nella prima
partita ufficiale nell’ottobre del 1882, allorché il neonato club fu sconfitto
8-0 dall’Astley Bridge nella coppa della contea, le maglie presentavano una
tonalità biancoblu. Solo nel 1911, per spirito d’emulazione nei confronti della
squadra del momento, cioè l’AstonVilla, i colori mutarono in quelli simili al
team di Birmingham. A questo punto i ricorsi storici non mancano. Bisogna
annoverare un Nickname, anzi tre. “Turfites”,” Moorites” e “Royalites”. Ora, se
i primi due sono facilmente riconducibili al nome dello stadio che sin dal 1883
vede, ammonisce, e benedice le gesta della squadra, il terzo è dovuto al
destino che in due occasioni ha visto il Burnley associato a grandi nomi della
famiglia reale. Nell’ottobre del 1886 il principe Alberto che si trovava in
città per l’inaugurazione di un ospedale si recò in visita al Turf Moor,
diventando così il primo reale a visitare uno stadio professionistico inglese.
In seguito nel 1914 quando il Burnley conquistò la sua prima e finora unica
Coppa d’Inghilterra, il trofeo fu consegnato al capitano da Re Giorgio V in
persona, in questo caso si trattò del primo Re che premiava i vincitori della
celebre competizione. Sette anni dopo, finite le ostilità della grande guerra,
dove molti figli di Burnley restarono per sempre nel vento dei campi francesi,
manager John Haworth regalò alla città del cotone la prima vittoria nel
campionato inglese, nonostante un avvio da brividi con tre sconfitte nelle
prime tre partite. Poi la striscia di 30 incontri senza mai perdere, un primato
battuto solo in tempi recenti dall’Arsenal di Wenger. Era il Burnley del buon
capitano Tommy Boyle, del portiere Jerry Dawson dallo sguardo pensieroso, del
bomber scozzese Joe Anderson che le foto d’epoca ritraggono come uno scolaretto
grassottello e indolente, ma che evidentemente in campo si faceva sentire, e se
la cavava anche molto bene se si considera che in quell’anno mise a segno in
totale ben 31 centri. Le stagioni da ricordare da lì in avanti non saranno
molte, anzi a dire la verità nell’attesa dell’altro anno di grazia, quello del
1960, bisogna sforzarsi per trovare qualcosa di buono dalle parti di Turf Moor.
Di delusioni invece se ne trovano. La retrocessione del 1930 per esempio, che
la bella semifinale di FA Cup del 1935 non riuscì chiaramente a compensare.
Alla ripresa delle attività agonistiche nel 1946 sembrò che il Burnley potesse
tornare a vecchi splendori. Una finale di coppa persa 1-0 contro il Charlton a
Wembley, un onorevole terzo posto nel 1948, e l’innesto nella squadra degli anni
cinquanta di quei giocatori chiave che porteranno al trionfo del campionato
targato 1959/60. Stiamo parlando di Jimmy Adamson e Jimmy McIlroy. Jimmy
Adamson all’anagrafe James, era di Ashington. Le orecchie a sventola, un naso
più da pugile che da calciatore, e sorriso da caricatura disegnato sul volto.
Durante la sua carriera, dal 1947 al 1964, ha giocato solo con il Burnley,
collezionando 426 presenze e segnando 17 reti. Fu ingaggiato nel gennaio 1947
dopo aver militato nella squadra della sua città e aver assaggiato carbone
nelle miniere. Lo scoppio della seconda guerra mondiale frenò la sua carriera
sportiva, che venne interrotta come a molti altri della sua generazione dal
servizio militare, svolto nel suo caso nella Royal Air Force, che rimandò il suo
debutto in campo al Febbraio 1951, quando entrò nella partita in trasferta tra
il Burnley e il Bolton Wanderers. Non fu mai convocato in nazionale, dovette
accontentarsi solo di alcune partite nella rappresentativa inglese B. Ma la sua
ragione d’essere, fu quella di indossare la fascia da capitano della squadra
nell’anno della vittoria del 1960, mantenendola fino al 1962 quando il Burnley
raggiunse la finale della FA Cup, persa contro il Tottenham Hotspur. In
quell'anno arrivò anche la nomina di calciatore dell'anno. Adamson formava una
coppia a centrocampo con Jimmy McIlroy, sulla quale era centrato molto del
gioco creativo del Burnley. McIlroy invece era un irlandese del nord, nato nei
pressi di Lisburn, dove il fiume Lagan trafigge, col suo corso, il distretto
della cittadina, tagliandola in due dopo aver attraversato un paesaggio
favoloso fatto di colli, campi coltivati e borghi contadini. Il tutto nel cuore
della Lagan Valley, dove la cittadina di Lisburn si immerge nella natura senza
disturbarla, assorbendo i ritmi lenti e piacevoli della campagna. Inizierà la
carriera nel Glentoran a Belfast, poi nel 1950 a 19 anni, Frank Hill, lo porta
al Burnley e lo fa esordire contro il Sunderland al Roker Park nell’ottobre di
quell’anno. Assomiglia un po’ a uno di quei saltimbanchi di strada che trovi
nelle vie delle grandi città e che provano a intrattenere i passanti con
qualche numero di magia, insieme all’immancabile cagnolino al loro fianco.
Stupisce che a distanza di anni riguardando le sue foto, sia certamente
invecchiato, e i capelli diventati bianchi come la neve, ma non abbia
assolutamente perso quella briosità e allegria che lo hanno sempre
contraddistinto nella sua vita. In dodici anni ai “Clarets” segna qualcosa come
112 reti. Quando nel 1963 fu venduto allo Stoke City molti tifosi ci restarono
male, anzi malissimo, non tanto per essersi sentiti traditi dal giocatore che
tanto gli aveva dato, ma semplicemente perché vennero a sapere del
trasferimento solo attraverso le pagine di un giornale. In ogni caso il Burnley
che vinse il campionato del 1959/60 resta la squadra iconica di questo lembo
d’Inghilterra. I semi del successo furono piantati su un humus di squadra già
fertile in un freddo gennaio del 1958 quando a Turf Moor arrivò Harry Potts.
Uno che aveva prestato servizio nella RAF in India, e che giocò per il Burnley
per qualche anno, prima di intraprendervi la carriera di allenatore nel 1958 in
sostituzione di Billy Dougall. Appena una stagione e siamo finalmente a quel
fatidico 1960. C'e da dire, che forse una delle cose peggiori della vita, è il
non sapere quando è l’ultima volta di qualcosa, o quando qualcosa che ci
entusiasma si avvicina alla fine. Non abbiamo mai saputo al momento giusto che
quello era l’ultimo romanzo di un certo scrittore, o quello l’ultimo film di un
certo regista. Troppo spesso quel che è l’ultimo risulta esserlo senza che
possiamo prevederlo, e arrivati alla fine abbiamo la sensazione che quel che è
stato non sia sufficiente, e di non aver sfruttato a dovere le giuste occasioni
successive, se avessimo saputo che non ci sarebbe stata un altra volta... In
aspetto strettamente calcistico il fatto che Il Burnley nel 1960 sia diventato
campione, sa tanto di canto del cigno, di un club che se avesse voglia di
tornare a sedersi sul trono d’Inghilterra dovrebbe di soppiatto entrare sotto
le imponenti arcate di Westminster e implorare gli inservienti. Anche se a
onore del vero due anni dopo la vittoria del 1960 arrivarono secondi a tre
punti dal sorprendente Ipswich Town. Ma torniamo a quel campionato, che prese
il via il 22 agosto 1959. Il Burnley non andò mai in testa alla classifica in
quel campionato. Come no, direte voi, come diamine ha fatto poi a vincere. In
realtà la squadra di Poots il primato solitario in testa al torneo lo raggiunse,
ma solo all’ultima giornata, a Manchester contro il City, al Maine Raod, in un
atmosfera carica d’adrenalina. La prima squadra ad uscire dal gruppo fu il
Blackburn, gli odiati vicini di casa, che mantenne il primato solitario fino
alla settima giornata, quando fu superato dal Tottenham, dal Wolverhampton e
dallo stesso Burnley. Furono gli Spurs comunque a staccarsi in maniera
importante e a condurre la classifica nelle giornate successive, tallonati dal
Wolverhampton e dal West Ham e dal Preston. Queste ultime due squadre però
sorpassarono il Tottenham alla diciassettesima giornata e condussero a
braccetto fino al diciannovesimo turno, quando il Preston prese solitario la
vetta, terminando il girone di andata in testa con un punto di vantaggio sul
Tottenham. Alla prima giornata del girone di ritorno gli Spurs riprendono il
comando della classifica allungando su un Preston in vistoso calo, mentre si
candidò come rivale dei londinesi proprio il Burnley, secondo dalla
ventiseiesima giornata con tre punti di ritardo sulla capolista. Il distacco
rimase invariato alla trentesima giornata, quando il Burnley cedette il posto
al Wolverhampton nel ruolo di rivale del Tottenham. Alla trentaseisima giornata
il Wolverhampton raggiunse il Tottenham per poi staccarlo al quarantesimo
turno. I Wolves conclusero il campionato al primo posto, ma furono superati dal
Burnley, che, vincendo il recupero del match contro il Manchester City, si
issarono in testa alla classifica vincendo il loro secondo agognato titolo con
un solo punto di vantaggio, 55 contro i 54 dei rivali. Non possiamo esimerci
dallo sfuggire dalle partite del “pathos” e del successo, contro le diretti
concorrenti. Come ad esempio quella giocata in casa il 7 novembre 1959, quando
un ispiratissimo e brillante Jimmy McIlroy, dispensò idee, rese concrete dai
goal di Ray Pointer detto “Bombshell Blonde”, uno capace di sostenere una media
da un goal ogni due partite, e John Connelly un altro che dava del “tu” alla
porta avversaria e che probabilmente se non avesse speso troppo tempo a
pettinarsi i capelli avrebbe anche segnato qualche rete in più. Quando arrivo
al Burnley stava facendo l’apprendista falegname e aveva 18 anni. Nel 1964 per
56000 sterline si accasò a Old Trafford, e dal Manchester United arrivò nella nazionale
campione del mondo di due anni dopo. Quel Burnley era un gruppo che meritò
davvero di vincere il titolo. Lo dimostrò anche il 1 marzo con un'altra diretta
pretendente, il Tottenham Hotspurs. Il Burnley si impose per 2-0 con due reti
nella ripresa. Parole e musica del solito John Connelly. L’ultima giornata è
però quella che è passata alla storia. E’ il 2 maggio 1960. Una folla di 65981
persone si accalcò sugli spalti. Fuori dai cancelli, anche un nutrito gruppo di
sostenitori dei Wolves accorsi per tifare i citizens. Un lunedì di speranza e
di paure. Sarà il giorno di Trevor Meredith e Brian Pilkington. Fu un inizio
nervoso da parte di entrambe le squadre, non facilitato nemmeno nel controllo
della palla, dalla difficoltà di indirizzare un passaggio preciso, a causa di
un campo gibboso e con poca erba. Durante la mattinata era stato innaffiato ma
evidentemente non in quantità sufficiente per garantire una morbidezza
soddisfacente. Tuttavia il Burnley va in vantaggio subito. Dopo appena quattro
minuti, Jimmy Robson serve il “tozzo” ma velocissimo Brian Pilkington che batte
Trautmann. Il City non ci sta e perviene al pareggio con Harvey che non da
scampo a Adam Blacklaw, il portiere che dopo aver vissuto per anni all’ombra di
Colin McDonald aveva trovato posto da titolare proprio in questa stagione. Ma
il Burnley vuole, e deve tornare avanti, e così in seguito a un fallo pesante
di Ewing su Pointer, guadagna un calcio di punizione. Lo batterà Tommy Cummings
e la sua traiettoria va a scovare proprio il punto in cui si nascondeva quel
piccolo opportunista di Trevor Meredith, nella mischia, in bilico, fra leggenda
e oblio. Andrà a segno e quel goal regalò la vetta della classifica e la coppa
di campione d’Inghilterra al Burnley. Quando smise di giocare Meredith si
dedicò a fare l’insegnante in una scuola primaria a Preston e chissà se ai suoi
allievi ha mai raccontato la storia di quella notte. Una notte dove i tifosi
all’unisono si lamentarono delle luci troppo forti di Maine Road che impedivano
di seguire a pieno le evoluzioni di quella palla bianca, e allora tutti
gridarono spazientiti, e si decise così per la sostituzione della sfera. Oggi
la strada adiacente al Turf Moor si chiama Harry Potts Way, una delle stand è
dedicata a Jimmy McIlroy. Impossibile dimenticarli, impossibile dimenticare
quel Burnley."Pretiumque et causa laboris", Il premio è il risultato
delle nostre fatiche.
di Sir Simon
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