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lunedì 9 dicembre 2013

Abbey Days...

Racconto di Sir Simon


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Una perfetta “fetta” d’Inghilterra. Dove è impossibile trattenersi dallo sbirciare attraverso gli antichi portoni di legno dei college per riuscire a scorgere deliziosi cortili e giardini, nascosti come tesori. Dove le vecchie librerie ti attraggono con il loro profumo di storia, e incantevoli mercatini fingono una vivacità più formale che sincera. Perché Cambridge alla fine, è luogo pigro, quasi indolente, dove lo scorrere del tempo sembra empaticamente legato al defluire placido del suo fiume. Quando vedrete un “punt”, un tipico barchino a pertica, scivolare dolcemente lungo le acque del Cam, la conduzione di quella barca potrebbe apparirvi semplice. Ma fate attenzione, il corrispettivo britannico della gondola veneziana, è molto più difficile da controllare di quanto possa apparire. A sentirne la descrizione, il “punting” potrebbe sembrare un innocuo e placido sport per campagnoli. A vedere il praticante locale medio, sembra una rilassante gita sul fiume. Il problema è che non si apprezza il peso del famoso palo, e il fatto, che il natante (privo di timone) tende a ruotare furiosamente su se stesso. Forse, meglio dedicarsi a un altro passatempo, molto in voga a Cambridge, e dagli aspetti più semplici.. andarsene in giro in bicicletta. Meglio d’estate, e magari verso i prati che digradano dalle parti di Newmarket Road, verso l’Abbey Stadium, dove all’ esterno delle quattro stand, pascolano in una visione assolutamente bucolica, imponenti mucche, che puntellano un verde che ti rapisce gli occhi.

Ora però abbiamo bisogno di un altro animale. Il cui habitat naturale ha sede ad un'altra latitudine, più a nord, rispetto alle guglie e ai pinnacoli della città universitaria, ossia un alce..

L’aneddoto, che se vogliamo potrebbe sfociare nel ridicolo, incomincia in Spagna ed ha un nome e un cognome ben preciso: Dale Collett.

Il diciannove agosto 1989 è sabato. Accidenti però, non un sabato qualunque. E’ il giorno dell’inizio del campionato, e Dave si trova in vacanza in Spagna. Dave è un tifosissimo del Cambridge United, ma ha dato una sbirciata troppo veloce ai calendari. Non si ricorda che la prima partita della sua squadra non sarà in casa, bensì in trasferta, e nemmeno dietro l’angolo. Gli “U’s”, saranno impegnati al Blundell Park di Grimsby.. Ora del calcio d’inizio fissata a quando tutti gli orologi del Regno Unito batteranno le quindici. Liturgia pagana del culto sportivo sacralizzato.

Dave non può mancare. S’infila sul primo volo per Londra, prende il primo treno per Cambridge, sale in macchina e parte da solo alla volta di Grimsby, senza nemmeno farsi una doccia. Alla radio passano “Eternal Flame” dei Bangles, e qualcuno ogni tanto fa il punto sui disordini pubblici scoppiati in Germania Est. Quel muro alla fine cadrà, pensa Dave, mentre intanto accelera, e si tocca la barba leggermente incolta, i capelli arruffati a cespuglio, e lancia un occhiata orgogliosa, verso quella sciarpa giallonera deposta con cura sul sedile del passeggero che dice tutto: “Cambridge United, Your City, Your Club.."

Non si fermerà mai. Quando esausto arriva sulla terrace del Blundell, gli amici gli vanno incontro per salutarlo e farli festa, ma lui blocca tutti a un metro di distanza:

“Non mi state vicino.. puzzo come un alce!”

Mai battuta fu più apprezzata. Quelle parole divertirono senza dubbio più il pubblico del noioso 0-0 che si stava trascinando sul campo, e per tutta la partita il gesto di imitare le corna sulla testa contagiò rapidamente la gradinata. Strano a dirsi ma da quel momento in poi il passo è breve, l’alce diventerà la mascotte ufficiale del club con il nome di Marvin the Moose.

E’ porterà fortuna perché da lì a due anni la squadra guidata in panchina da John Beck guadagnerà non solo due promozioni consecutive, ma anche, per due volte, i quarti di finale della FA Cup. I fantasmi della penosa rielezione in Football League del 1986 sembravano definitivamente scacciati.

Velocissimo tuffo nel passato. L’Abbey United nasce nel 1908, ma diventerà team professionistico solo nel 1949, e tre anni dopo nel 1951 muterà la propria denominazione ufficiale in Cambridge United. L’ingresso nella Lega è invece datato 1970, mentre nel 1977, sotto Ron Atkinson, arriverà la prima vera importante argenteria in bacheca, ovvero, il trofeo della Quarta Divisione.


Bene, torniamo a Beck, e al 1990/91.

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John Alexander Beck è un ispido londinese di Edmonton. Un uomo insondabile a livello mentale, di un’intelligenza rivoltante. Ha le sue tattiche. Vuole sniffarlo il cuoio del pallone, sentire il fiato dei suoi giocatori sul campo. Vuole ascoltare lo sdegno degli avversari. La sua carriera agonistica terminò per un infortunio nel 1989, e passò a fare l’assistente di Chris Turner, finchè, a seguito delle dimissioni di quest’ultimo, fu nominato manager nel gennaio del 1990.. Un giovane, ma per gli addetti ai lavori, paradossalmente fuori moda. Non ama i nuovi stili di gioco. Ha una fede cieca per la palla lunga e pedalare, e per i cross in mezzo all’area, innervati di vecchio calcio inglese. La sua impopolarità crescerà però al ritmo dei suoi successi. Un ossimoro sportivo del quale lui ovviamente non si cura e persegue nel credo. Circolavano strane storie sulle richieste di Beck a riguardo che l'erba presso l'Abbey, doveva essere coltivata alta negli angoli al fine di impacciare gli scatenati funamboli ospiti. Il riscaldamento negli spogliatoi dei rivali poteva variare improvvisamente, così come il livello dello zucchero nelle teiere durante la pausa. In particolare Glen Hoddle, all’epoca allenatore dello Swindon ebbe un alterco con Beck che per poco non sfociò in una vera e propria rissa, per certe supposizioni ampiamente dichiarate dall’ex giocatore del Tottenham Hotspur.

Ma queste cose erano poco importanti per i sostenitori dello United, fin troppo felici di scalare la piramide del calcio inglese e di ritrovarsi tutti, il nove di marzo del 1991, sotto la clock end di Highbury, a giocarsi l’accesso alle semifinali della Coppa d’Inghilterra.

Leggete bene in fila i nomi degli avversari che il Cambridge United di quella stagione, aveva di volta in volta eliminato, per arrivare a disputare quell’incontro, con la squadra che qualche mese dopo diventerà campione nazionale, in una serata sviscerante indimenticabili emozioni. Ma questa è un altra storia che qualcuno più bravo di me ha già raccontato in maniera esaltante e coinvolgente..

Atteniamoci al nostro racconto. Eccole quelle squadre fatte fuori: Exeter City, Fulham, Wolverhampton, Middlesbrough, Sheffield Wednesday..

Vittime illustri di un gruppo che faceva riferimento sopratutto sulla boa centrale color ebano, che l’anagrafe di Leicester conosceva come Dion Dublin. Con lui spiccavano elementi del calibro di John "Shaggy" Taylor centrocampista di granito, Danny O'Shea il capitano, Mick Cheetham e Chris Leadbitter, il muscoloso Lee Philpott, i terzini Gary Rowett e Alan Kimble, e il serioso portiere John Vaughan.

La partita perfetta fu quella in casa contro le Owls. Un 4-0 perentorio mentre nel frattempo erano in cammino verso il titolo di divisione. Lo Sheffield Wednesday scese a Cambridge forte di 18 match senza ombra di sconfitte, ma la loro striscia d’imbattibilità si bloccò stupefatta davanti al Re nero Dublin, che aprì le marcature raccogliendo un errato passaggio all’indietro, al raddoppio di Lee Phillpott, e alla doppietta griffata John Taylor.

La partita di Highbury fu una passerella galante, davanti a 43000 spettatori. Il solito fascinoso impianto di Londra Nord, gremito all’inverosimile, in una tavolozza di colori accesi, stemperati dagli squarci del cielo grigio di Islington, che sbucava ai quattro angoli dello stadio, e dalle ombre cangianti delle parti più alte delle tribune. L’Arsenal di manager George Graham. Una litania che scivola luminosa come un incantesimo: Seaman, Dixon, Winterburn, Bould, O'Leary, Adams, Thomas, Merson, Hillier, Smith, Campbell.

Proprio quest'ultimo, Kevin Campbell, incrociò di testa un perfetto traversone di Winterburn e portò in vantaggio i gunners. I cori della North Bank non freneranno però la straordinaria vivacità realizzativa dello scatenato Dublin di quella stagione, che con un’acrobazia impossibile, in apertura di ripresa riporterà l’incontro in parità. Non servirà, perché il sogno dei gialli di Cambridge si frantumerà poco dopo sull’incocciata ravvicinata di Tony Adams.

La corsa degli U’s era finita. Wembley poteva attendere. In fondo, cosa importa, il tempo non passa mai a Cambridge..


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sabato 23 novembre 2013

Saints Memories

Ne sta arrivando un'altra. Più dolce. L’ennesima onda che bacia di mistero la riva. Ti viene voglia di bagnarti i piedi, di toglierti le scarpe, di farti accarezzare da quell’acqua gelida. Ti viene voglia di chiudere gli occhi, di non sentire più i rumori del porto, le urla dei gabbiani, il mormorio sommesso di gente che passa distratta intorno a te. Percezione di fantasmi. Quelli partiti e non più tornati. Quelli non più trovati. Quelli che dovevano arrivare a New York e invece il 14 aprile 1912 a bordo di un enorme transatlantico nero costruito nei cantieri navali Messrs di Belfast, 400 miglia a sudest della costa Canadese si scontrò con un enorme iceberg:

La vedetta Frederick Fleet lo vide solo quando era ormai a 500 metri di distanza..

“Iceberg di prua, signore!”

Il primo ufficiale William M.Murdoch ordinò:

“Tutto a dritta. Indietro a tutta forza..”

La repentina virata a sinistra si rivelò inutile, trentasette secondi dopo l’avvistamento avviene l’urto a prua, sulla fiancata destra della nave, sei dei sedici compartimenti stagni rimarranno danneggiati, e a sei metri di profondità l’acqua incominciò a filtrare nella nave. 1517 vittime.

Di cosa abbiamo bisogno. Di certezze o di sogni?. Forse di entrambe le cose. Forse è vero che serve un briciolo di sana follia per creare qualcosa che valga la pena, essere considerata. Ricordata. Southampton ci ammaliava con qualcosa di particolare, di vagamente incomprensibile, se si ritiene le geometria applicata all’architettura un qualcosa di simmetrico e non barocco. Il Dell era tutto è di più.

Possenti edifici medievali ci guardano. Angeli custodi delle città di mare, preda quotidiana d’ incursioni nemiche. Il Dell era quello che volevi per affermare l’unicità di un luogo e di un culto.

ll Dell era lo stadio dei santi, quelli che ora giocano sulle rive dell’Itchen, cercando la spiritualità delle origini, ma che di santità e rispetto, ne hanno sempre meno, come tutti.

Il Dell è stato il primo stadio ad aver installato un impianto d’illuminazione permanente, ed è stata la casa del Southampton FC per 103 anni. Freddo. Usciamo da quest’acqua che nemmeno lei è la stessa. Il Dell con la sua tribuna obliqua. Uno degli ultimi satrapi cui le concubine del vero calcio inglese si sono concesse. Investito, abbattuto, da un complesso residenziale su cui i condomini, in un coraggioso gesto di memoria fanno incidere accanto alle loro porte d’appartamento, nomi che si perdono nel vento, ma che il vento nel suo ciclo di eterno ritorno fa annusare ancora. C’è anche un Dio, fra questi. In ginocchio, miscredenti. Mattew Le Tissier da Guernsey. Troppo francese quel nome. Quelle coste troppo vicine. E lui risente i difetti secolari della reggia di Versailles. Aristocratico, elegante, indolente. Eppure un genio. Un lucido artista del calcio. Il primo centrocampista a segnare 100 gol in Premier League. Non è l’unico nome. Non ci sono altre divinità forse, ma altri piccoli grandi eroi che qui hanno fatto le loro imprese. Provate a suonare i campanelli a Bobby Stokes , Ted Bates , Danny Wallace o a Mick Channon. Non vi apriranno loro, ma qualcuno disposto a raccontarvi della sua fede nei “Saints”, e della storia di questo club lo troverete di sicuro. Fra il sacro e il profano.

Vi diranno di un curato che fondò il St. Mary Church young men's (abbreviato in "YMA St Mary") che poi divenne semplicemente S. FC of Mary nel 1887-1888, prima di adottare il nome di Southampton St. Mary quando il club si unì alla Southern League nel 1894, finchè dopo aver vinto il titolo nel 1897, fu ribattezzato semplicemente Southampton FC. Ma si, come no. Vi diranno anche che quel giorno faceva un gran caldo. Un’ondata di caldo anomalo che nel 1976 aveva colpito l’Inghilterra. Inconsueto come quel vinile di Jasper Carrott chiamato “Carrott in Notts” che accompagnò il Southampton a Wembley per la finale di FA Cup. Era il primo di maggio e la città era vuota. Letteralmente. Tutti a Londra. O tutti davanti alla TV. A colori o in bianco e nero. Anzi in bianco e rosso, non c’era alternativa. La squadra allenata da Lawrie McMenemy la stava per combinare grossa. McMenemy era uno del nord. Nato a Gateshead, specchio fedele della Newcastle che si affaccia sul Tyne. Ha il naso grosso e un sorriso convinto. Arriva dal Grimsby Town, dove ha vinto un campionato di Quarta Divisione. Al vecchio Dell troverà un club di seconda Divisione formato da un gruppo non giovanissimo. Eppure il destino aveva in serbo un regalo: Un dono brillante come quella coppa d’argento, posata sul palco reale davanti alla Regina Elisabetta. E lucente di gloria, come quelle maglie gialle indossate quel giorno dai Santi.

Il Manchester United aveva il dente avvelenato. L’infausta retrocessione patita due anni prima, e per ironia della sorte dettata dall’ex Dennis Law davanti ai muri piangenti del tempio di Old Trafford andava vendicata con una grande vittoria. Tommy Docherty manager scozzese dei red devils lo sapeva, e non doveva sbagliare.

Centomila. Ian Turner portiere del Southampton, lì vede. Non è un miraggio. E allora si esalta. Quando l’orologio nei primi venti minuti decide di non scorrere il santo è solo lui. Para tutto, gioca la partita della sua vita, e infonde fiducia alla squadra. Qualcuno alla BBC disse che il risultato non poteva essere che in doppia cifra a favore di quelli di Manchester. Oracoli cattivi e falsi.

Quando il pulman del Southampton era penentrato a fatica fra due ali di tifosi entusiati nel cuore di Wembley, il bus involontariamente, aveva colpito uno spettatore e tutti i giocatori si erano molto preoccupati quando entrarono negli spogliatoi. Peter Rodrigues il capitano non è tranquillo. Torna in strada. Chiede informazioni. Lo rassicurano, tutto a posto, il ragazzo sta bene. Solo allora rientra, indossa la maglia, e entra nella luce abbagliante del campo. Lui è Il capitano. E come tutti i capitani hanno qualche ferita. Nel fisico e nel cuore. Si riconosce subito. Inconfondibile quel gallese. Il capello brizzolato, un leggero riporto, e occhi azzurri sopra baffi da serioso ufficiale di frontiera.

Mike Channon gli si avvicinò, prima della rituale presentazione alle autorità. Channon è un capelluto centrocampista, appassionato di cavalli.. Gli dice che non avrebbe scommesso un penny sulla vittoria, ma chi lo ha fatto non ha sbagliato. Ossimoro da ippodromo, da chi non dice mai di aver giocato un brocco 10 contro 1 finché non vince e dimostra a tutti la sua competenza.

In quella squadra c’era anche “Ossie” Peter Osgood lo stravagante ex Chelsea approdato a Southampton due stagioni prima. C’era soprattutto l’autore della rete decisiva. Un diagonale bello e preciso. Tagliente come una lama nel burro: Bobby Stokes.

Quando ormai la partita si stava incanalando verso un pareggio, che già sarebbe apparso una mezza sorpresa, Jimmy McCalliog intelligente e versatile centrocampista serve Bobby sulla linea di confine e lui infila la palla dietro Alex Stepney, laggiù, nell'angolo più lontano, dove le vecchie e magiche reti di Wembley si facevano ancora più capienti.


Il Southampton aveva vinto la sua FA Cup. A Southampton si festeggiava. Li, dove tutto si unisce. Fiumi, mari e oceani.



di SIR SIMON


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The Last Cup..

1887-1957. Sette e non più sette. Forse semplici numeri. O forse dosi arcane di alchimie esoteriche, oracolari, imperscrutabili e sentenziose. Vaticini del destino in attesa di essere spezzati, ma che ancora si annidano sinuosi, viscidi e impalpabili, nelle stanze Vittoriane di Trinity Road, con la sua bella facciata in mattoni rossi voluta da Fred Rinder, e inaugurata dal Duca di York.

Gli stessi vaticini che scrutano il Villa Park dagli infissi bianchi dell’Holte Hotel, mentre qualcuno magari entra trafelato nell’ Aston Parish Church con una sciarpa di lana claret and blue a guardare verso l’alto, verso quelle arcate goticheggianti, e più su, oltre il grigio del cielo di Birmingham, a cercare un motivo, una risposta, un perché. Volti nella penombra dei pensieri che si fanno più nitidi, più chiari. Jack Hughes, Frederick Matthews, Walter Price, William Scattergood. Rischiarati da una luce a gas, eccoli i quattro padri fondatori. Chiusi nei locali della Wesleyan Chapel, circondati dal freddo nebbioso di una sera d'inverno del 1874.

Sette e non più sette. Nel 1887 arriva la prima FA Cup, nel 1957 l’ultima. In mezzo altri cinque successi. Poi il Sacro Graal sparirà per sempre. Un oblio che sembrò finire quando il novello Giuseppe D’Arimatea, all’anagrafe di Scunthorpe, John Gregory, tornò, a inizio millennio per l’ultima volta nella Gerusalemme sportiva di Wembley a reclamare quella santa coppa. Gli italiani a libro paga del Chelsea gli dissero di no. Un goal di Roberto di Matteo a diciassette minuti dalla fine spezzò le speranze, e spense illusioni e TV della collina orientale della citta delle West Midlands. Quelle di East Hill, che da “Estone” si trasformò in Aston. Settantatre, o diciassette. Ancora quello strano numero sette nel mezzo.

Il 4 maggio 1957, l’AstonVilla di Eric Houghton, trilby verde e soprabito scuro, nonostante il pomeriggio soleggiato, scende a Londra per il settimo sigillo. Un record in quel momento. Difficile, ma non impossibile contro il Manchester United di Matt Busby alla ricerca invece di uno storico “Double” dopo l’affermazione in campionato. John, questa è una grande giornata, fuori ci sono centomila persone. Fuori ad aspettarlo ma in maglia bianca a bordi rossi, c’era il ventunenne ma già massiccio Duncan Edwards. Lo sfortunato Duncan Edwards. John è John Dixon, capitano di un AstonVilla che aveva fatto una gran fatica per arrivare sotto le torri, ma ora aveva l’onore e l’onere di indossare quella struggente maglietta di cotone a righe verticali con cucito sul cuore un leone rampante. Fuori c’era il palco reale, c’era la regina Elisabetta con uno splendido abito beige, e c’era anche Filippo Duca di Edimburgo a stringere le mani ai campioni.

C’era l’etichetta inglese. C’era la compostezza e c’era la frenesia. C’erano l’educazione e il decoro, un tifo chiassoso ma ancora non sguaiato, ancora non violento, nel sostegno ai loro undici ragazzi. E chissà forse nessuno dei tifosi presenti a Londra aveva mai visto giocare la loro squadra con l’orpello scozzese sulla maglia.

L’ultima volta era accaduto nel 1882. C’era stato un signore, uno scozzese, un uomo d’affari, un certo William McGregor a voler mettere le tende di tartan agli uffici del club. McGregor è un evangelista convinto, non beve, non fuma sigari, forse sfugge alle lusinghe di qualche bella donna, ma non resiste alla tentazione di un pallone che rotola. A otto anni vede la sua prima partita, e si offrirà di aiutare in qualche modo l’AstonVilla.

Nel 1878 va in Scozia e compra le divise per la squadra. Leone Rosso su campo nero. Roba da torneo medioevale, un frammento ritagliato da una pagina dell’ Ivanohe di Walter Scott. E Leone sia allora.

Purtroppo quel leone non aveva nessuna possibilità di vittoria contro la donna delle pulizie. A furia di lavaggi il leone diventa pallido e anemico. Resterà icona del club, ma ruggirà sulle divise di nuovo proprio in quel fatidico 1957.

Nigel Sims era arrivato fra i pali di Villa Park nel marzo dell’anno precedente. Aveva vissuto otto stagioni all’ombra del grande Bert Williams a Wolverhampton, ma finalmente ora le Midlands avevano un sapore diverso. Quello del protagonista.

Attenzione però.

Il vero protagonista di quella finale sarà esclusivamente Peter James McParland. Croce e delizia. Lo hai fatto apposta Peter? E’ stato un incidente? certo poteva avere serie conseguenze.

McParland si scontra con il portiere del Manchester United Ray Wood. Un impatto violentissimo. Zigomo rotto e susseguente stato confusionale. Wood deve uscire, anzi no, prima lo barellano, poi pascola inebetito sulla fascia destra del campo. Busby manda in porta Jackie Blanchflower. Senza guanti. Uomini di bosco e di riviera. Un'altra epoca.


Wood rientrerà per gli ultimi sette minuti di gioco, quando lo United è sotto per due a uno. Entrambi i centri portano la firma di McParland. Il primo con un colpo di testa perentorio sfruttando la pennellata di Dixon, e il secondo ribadendo in rete la fortunosa respinta corta della traversa che aveva detto di no al suo capitano. Poi Tommy Taylor accorcia le distanze per i red devils al termine di una litania di calci d’angolo ma è troppo tardi. L’FA Cup, colma di champagne finisce nello spogliatoio del Villa e per le strade di Birmingham. Un giorno passerà da quelle parti anche la Coppa dei Campioni, fra il sogno e la leggenda. Un giorno riapparirà anche la FA Cup. Servirà il compiersi di un prodigio, di un intrigo di magie? Sicuramente occorrerà una buona squadra e un buon allenatore. E quel sette non farà più paura. Ma tornate a prendere quella coppa. Tornate a bere il sangue del Graal, villans.


di SIR SIMON


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lunedì 14 ottobre 2013

We are Morton

Racconto di Sir Simon


La statua di bronzo di James Watt sbuca all’angolo fra Darlymple e William Street. Il più celebre figlio di Greenock, issato su un piedistallo ottagonale, sembra non curarsi troppo dei passanti, appare distratto, disinteressato da ciò che gli accade intorno, assorto nei suoi pensieri, nei suoi studi. E poi in fondo che cosa mai avrebbe da imparare l’inventore scozzese da questo anonimo e scialbo presente. Era nato qui il 19 gennaio 1736, quando questo luogo era poco meno di un modesto villaggio di pescatori. Oggi la cittadina, da molti criticata e vituperata per il suo aspetto depresso e sconfortante, non è per niente così ostile, anzi, a dirla tutta questa sua esteriorità cupa di fosco porto britannico, incuriosisce e affascina. Ci si può intrattenere sull’Esplanade: il lungomare della Greenock “salutista” in cui non è raro incontrare sfaccendati o improbabili coppie bighellonare lungo la serpeggiante lingua di cemento che unisce il centro con Gourock, un gradevole e pittoresco borgo di mare. Storicamente, l'economia della città si è sempre incentrata sui cantieri navali, la raffinazione dello zucchero e la lavorazione della lana. In questo momento però, nessuno di questi settori fa parte importante dell'economia locale, basata ormai prevalentemente sull'industria elettronica che ha creato vari call center, presi d’assalto nonostante le paghe precarie, come d'altro canto i contratti dei loro dipendenti. Controindicazione climatica per i meno temperati, il forte vento che si alza dal Firth of Clyde, e la continua pioggia che potrebbe benissimo farvi compagnia per intere settimane. Ovvio si può tranquillamente battere in ritirata verso luoghi meno avversi, e allora quando le giornate invernali si accorciano a vista d’occhio, è bello trovare asilo in un buio pub dalle pareti stillanti whisky, e instaurare un viscerale e intenso rapporto con un bicchiere di Glenlivet: “Slanj”, salute. In gaelico, chiaro. E così, alla salute dei visi cerei e rubizzi degli abitanti di Greenock, inizia il nostro racconto sulla locale squadra di calcio.

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“Questo club deve essere chiamato Morton Football Club”.

Chissà se il giornale locale, The Greenock Telegraph, uno dei quotidiani più antichi del Regno Unito, abbia riportato nel 1874 la notizia della nascita della squadra, e la decisione presa dai suoi padri fondatori di chiamarla così. Il motivo sembra debba ricercarsi nell’uniforme caseggiato dove abitavano James Farell, Robert Aitken, Alexander Ramsay, Mathew Park e John Barrie, primi calciatori della squadra, denominato “Morton Terrace”, e che costeggiava il fangoso campo da gioco. Ci sarebbe, come spesso accade, anche una teoria alternativa che prende spunto invece da tale James Morton un celebre costruttore del posto diventato membro protettore del club dopo essere stato “prevosto” della cittadina per tre anni. L’associazione con Greenock invece è affare piuttosto recente, datato 1994, quando si decise di abbinare “Morton” al luogo natale, anche se a dirla tutta quattro anni dopo si cercò in maniera un po’ imbarazzante di tornare al vecchio nome. La popolarità del calcio in Scozia crebbe rapidamente. Intorno al 1880 fra Greenock e dintorni erano sorte numerose società dedite al nuovo sport, dove il Morton era considerato a tutti gli effetti una delle formazioni migliori del momento. Il gruppo originario come detto, aveva incominciato a tirare calci al pallone su un terreno nei pressi di Morton Terrace, prima di trasferirsi a Garvel Park. Nel 1879, a causa di pressanti richieste per poter utilizzare l’area a fini industriali il sodalizio optò molto semplicemente di attraversare la strada e insediarsi in quello che diventerà la sede definitiva, ovvero il Cappielow Park dei giorni nostri. Duecento metri dalla stazione ferroviaria di Cartsdyke dove vi conviene scendere se la vostra meta è lo stadio dei “Ton” o, con un pizzico d’egocentrismo, del "The Pride of the Clyde". Cappielow originariamente mostrava una pista ovale sterrata che era utilizzata per l'atletica e, talvolta, per le frenetiche e seguitissime corse di cani. L'area sul lato ovest dello stadio divenne nota e lo è ancora oggi, come "The End Wee Dublin". Una sorta di enclave irlandese, dovuta al fatto che questa zona ospitava per larga parte soprattutto immigrati di questa nazione, che erano venuti qui a lavorare nei cantieri navali, fra banchine assediate dalla salsedine e urla rauche di gabbiani enormi. La prima “stand” in legno venne costruita nel 1880 e riammodernata nel 1931, mentre il terrapieno che correva lungo il lato opposto del campo fu sostituito con la tribuna detta “The Stable” nel 1958. Stiamo correndo troppo come sempre, torniamo al 1890. Anno Domini del football scozzese, dove prende vita in maniera ufficiale la lega calcio. Il Morton deciderà di formarsi come un team professionistico nel 1893 iscrivendosi al campionato di seconda divisione e tre anni più tardi diventerà società a responsabilità limitata, il primo club a farlo nel paese. In quell’anno vincerà per la prima volta la Renfrewshire Cup, la famosa coppa della regione, battendo i rivali del St. Mirren per 3-0. La squadra giocò fin da subito con una deliziosa maglia a cerchi white & royal blue. Una decisione quella dei colori che venne presa al momento della costituzione, dove fra le altre cose si dichiarava, che tutte le attività sarebbero state svolte secondo principi di buon gusto e condotta educata. Una delle regole basilari doveva essere quella di astenersi dall’alcol, ma questa normativa non fu un'idea che superò la prova del tempo, e sinceramente c’era da aspettarselo.. a differenza dei colori originali che il club manterrà, esclusa una breve parentesi in rosso blu fra il 1892 e il 1896. Il decennio compreso fra il 1910 e il 1920 resta un periodo di grande successo per il Morton, che toccherà l’apice con la vittoria della Coppa di Scozia nel 1922, la prima e sola affermazione nella sua storia in questa competizione. A regalare il successo alla squadra allenata da Bob Cochrane, ci pensò Jimmy Goulay, che mise a segno la rete dell’1-0 contro i Rangers, su calcio di punizione dopo appena undici minuti di gioco. Ricordi sbiaditi e in bianco e nero di un cammino vittorioso che li aveva visti eliminare nell’ordine, Vale of Leven, Clydebank, Clyde, Motherwell e Aberdeen in semifinale. Per motivi probabilmente di ordine pubblico le strade di Greenock dovettero aspettare qualche giorno per festeggiare i loro eroi. La squadra che portò l'unico trofeo a Cappielow a parte il già citato Goulay in arte difensore, era formata da Edwards in porta, McIntyre, R.Brown, e Wright come pacchetto arretrato, McGregor, McNab, McKay e Buchanan a centrocampo e Brown e McMinn in avanti. Una vittoria che assomigliò molto a quello che in gergo si chiama canto del cigno. Dopo la conquista della coppa, infatti, il Morton si sistemò in un’estenuante altalena fra la prima e la seconda divisione. Uno squillo di gloria sembrò voler risuonare nel 1948, nell'anno della ristrutturazione dello stadio che costrinse i Ton a spostarsi fra Paisley e Ayr, quando raggiunsero un'altra finale della coppa nazionale, questa volta sotto la guida di Jimmy Davies. Erano riusciti nell’impresa di battere il Celtic in semifinale, e a Hampden, di fronte a un pubblico di 126.176 spettatori si trovarono di fronte ancora i Glasgow Rangers. La prima partita terminò in parità dopo i tempi supplementari per 1-1 grazie al centro di Jimmy Whyte. Ma nel replay disputato quattro giorni dopo, e con un’affluenza di pubblico ancora maggiore, i “gers” si portarono a Ibrox il trofeo con la rete di Billy Williamson. Gli anni cinquanta non produssero risultati apprezzabili, se non il solito andirivieni fra le due categorie maggiori. Meglio il decennio dei “sixties”, dove si mette in luce Hal Stewart, manager carismatico e per certi aspetti precursore caratteriale e comportamentale del Don Revie del Leeds United. Nella stagione 1963-1964 il Morton, con una rosa che comprendeva bomber Allan McGraw, raggiunse la finale di coppa di lega da club cadetto. Accadde il 26 ottobre 1963, e fino a metà gara, l’incontro con i soliti Rangers era ancora in parità. Difficile capire la svolta negativa della ripresa dove il Morton si arrese affossato dai cinque centri degli avversari. Comunque la stagione fu di quelle da ricordare con ben sessantasette punti totali, la classifica migliore di tutti i tornei professionistici della Gran Bretagna. Erano i tempi di quella che venne ricordata come l'invasione scandinava, con l’arrivo di diversi giocatori danesi primo fra tutti Eric Sornson, che arrivo nel 1964, presto seguito da Kai Johanson e altri quattro. Un periodo assolutamente fertile anche nel vivaio che vide uscire elementi del calibro di Joe Harper e Joe Jordan. Ci sarà anche una storica qualificazione europea nella coppa delle fiere nel 1967, seppure un sorteggio poco fortunato lì vedrà uscire immediatamente al primo turno per mano dei londinesi del Chelsea. Benny Rooney arriva come manager nel 1976 e vi rimarrà fino al 1983. Niente di straordinario da menzionare e forse è un vero peccato visto che in quelle stagioni dalle parti di Cappielow Park sono passati giocatori come Mark McGhee, Joe McGlauchlan, Davie Hayes, Neil Orr e Andy Richie il cui nome evoca ancora serate indimenticabili tra i privilegiati che hanno avuto la fortuna di vederlo giocare.

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Ritchie era nato il 23 febbraio 1956 a Bellshill, nel Lanarkshire; ricci scomposti, indifferenza apparente agli eventi, e un perenne sorriso stampato in faccia. Resterà famoso per i suoi sette anni a Greenock durante i quali ha segnato 118 gol. Venerato dai tifosi si guadagnò rapidamente il soprannome “ The King of Cappielow Park”'e di “The Idle Idol “. Fece il suo debutto in maglia bianco blu, il 28 ottobre 1976 ottenendo il titolo di capocannoniere della prima Divisione nel 1978/79. Il giornalista Chick Young definì Ritchie come il perfetto esempio di calciatore scozzese: grasso, pigro, bastardo, ma di grande abilità con la palla fra i piedi. Era piuttosto noto per la sua bravura sui calci di punizione, forse ispirandosi alle capacità balistiche dei calciatori sudamericani osservati nei mondiali tedeschi del 1974. In un famoso incidente Ritchie quasi si ruppe una gamba cadendo malamente sul fotografo del Greenock Telegraph, Jim Sinclair appostato sulla riga di fondo campo. In panchina intanto si avvicendano Alex Miller eTommy McLean. Tommy portò giocatori come Jim Duffy, Dougie Robertson e il club nel 1984 ritornò nella massima serie. Lascierà Cappielow Park per il Motherwell, e al suo posto subentrerà suo fratello Willie. L’alternanza familiare però non porterà fortuna, e il Morton precipiterà ancora in seconda divisione, in un annata tutta da dimenticare dove raccoglierà il record negativo di cento reti subite. Era il 1985 e l’IBM, che qui dava lavoro a una buona fetta di popolazione sfornava i primi computer con il display a colori. Incomincia l’era targata Allan McGraw, un ex leggendario attaccante dei Ton capocannoniere della squadra per cinque stagioni consecutive, prima di passare all’Hibernian. McGraw terrà le redini fino alla metà degli anni novanta assemblando una compagine che ottenne la promozione nella stagione 1987-88 con in campo Rowan Alexander artefice di 23 gol. McGraw fu sempre visto come un vero gentiluomo, con un grande amore per il Morton, e un occhio attento per individuare e coltivare i giovani talenti. Fra i suoi “laureati” Derek Collins futuro capitano, Derek McInnes, David Wylie e David Hopkin. Un altra finale persa fu quella del dicembre 1992, in un trofeo minore a essere sinceri, la Challenge Cup 2003 (sponsorizzata B&Q), quando in finale l’Hamilton Academical superò il Morton per 3-2 al Love Street di Paisley davati a 7.391 spettatori. L’ ”annus horribilis” resta forse il 1993-94 che vide la squadra retrocedere in terza serie, in gran parte a causa dei numerosi infortuni a lungo termine accusati dai giocatori. Tuttavia quest’inciampo fu una benedizione sotto mentite spoglie. McGraw piazzò numerosi giocatori in altre società acquisendo una notevole quantità di denaro per rafforzare la squadra, con gli acquisti dei finlandesi Janne Lindberg e Mark Rajamäki. E con loro un’immediata risalita di categoria. Di nuovo quindi in seconda divisione dove per poco l’undici di Greenock mancò un posto nei play off per l’accesso in Premier League, sfuggiti per la differenza reti, dopo la sconfitta rimediata malamente all’ultima giornata della stagione. Nel 1997 a Cappielow arriva Billy Stark e anche giocatori come Kevin Twaddle e Kevin Thomas. Tuttavia saranno anni complicati, il club per problemi finanziari è costretto in amministrazione controllata, costringendosi a vendere la maggior parte dei suoi migliori elementi. E costantemente la clessidra inclemente del tempo si svuotava, senza che il sodalizio riuscisse a trovare un nuovo acquirente. Una cordata capeggiata dal professor James Pickett sembrò essere la risposta tanto attesa, ma sfortunatamente il gruppo si sciolse, lasciando il compito di salvare la società a Douglas Rae proprio all'ultimo minuto utile. Prima mossa del nuovo presidente la nomina in panchina nel 2001 di Peter “Barr” Cormack ex centrocampista del Liverpool degli anni settanta che frettolosamente mise insieme un gruppo per tentare una salvezza complicata. Purtroppo la fretta non permise una buona amalgama della squadra che retrocesse ancora nella terza divisione. Andò meglio nel 2003, quando i Ton di un altro McCormack (John) vinsero il campionato di terza divisione di fronte agli oltre 8000 tifosi radunatasi all'ultima giornata della stagione a Cappielow Park. Quattro anni dopo altra gioia, grazie anche ai 15 centri di Peter Weatherson e alla saggia guida del grande John McInally. I Ton erano tornati al loro posto, quello attuale, con il solito occhio lungo sulla Premier League..

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martedì 17 settembre 2013

The Quakers...


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John Dobbin ha dieci anni ed è bravissimo a disegnare. Oggi però deve rinunciare alla sua passione perché tutto intorno a lui è in fermento. L’intera città si reca nella nuova stazione. Non quella per le carrozze dei signori, un'altra. Dicono stia arrivando una grande invenzione. Quando il rumore di quel mezzo sconosciuto incomincia a farsi più forte e vicino, si aggrappa con più veemenza alla gamba del padre come a volersi nascondere per la paura. Eppure tutti intorno a lui sembrano entusiasti, ridono, attendono con ansia che spunti quella macchina di ferro che pare si chiami locomotiva. Eccola. Sbuffa un fumo denso come John aveva visto fare solo alle ciminiere delle fonderie della sua città. Un lungo convoglio nero che ingurgita carbone con bucolica avidità, e scorre, aggredendo due rotaie parallele che le indicano il percorso.
John alla fine ne resta affascinato, il timore è passato, ora anche lui fa ampi cenni, in segno di festa e saluto. Ma quasi nessuno si toglie il cappello, e poi vi spiegherò il motivo.. Anni dopo John diventa un apprezzato pittore di paesaggi, e il suo dipinto più famoso resterà proprio quella scena che vide quel giorno con i suoi occhi di bambino: L’inaugurazione del primo tratto ferroviario del mondo, avvenuta il 25 settembre 1825 fra Stockton e Darlington.
Una prova tecnica ad essere sinceri. Poiché soltanto cinque anni più tardi, su quel nuovo mezzo di trasporto chiamato treno potranno salire veri passeggeri, sulla tratta Liverpool -Manchester, ma in ogni caso il signor George Stephenson, di professione ricercatore e inventore per diletto, l’aveva fatta grossa..
C’era di che essere orgogliosi a Darlington.. Ma vi avevo accennato alla storia del cappello.

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E allora cerchiamo di capirci qualcosa in più..
In quest’angolo del profondo nord inglese, non tutto era apprezzato. La nazione non nutriva eccessive simpatie per le tendenze religiose della comunità locale. E’ il motivo era sostanzialmente un verbo: To quake…ossia, tradotto letteralmente, tremare o scuotersi. In pratica quello che succedeva quando in mistici ritrovi spirituali, sui partecipanti sarebbe dovuto scendere il fuoco dello Spirito Santo, e si contorcevano in preda a estatici tremori e improvvisi sussulti..
E tornando al copricapo, una delle regole dello zelante gruppo recitava di non togliersi mai il cappello di fronte a nessuno.
Quaccheri. Un movimento, o società religiosa, sorto in Inghilterra nel XVII secolo. Il loro fondatore, George Fox apprendista calzolaio e figlio di una famiglia di tessitori, si convinse previa illuminazione, di sistemarsi confessionalmente nell'alveo del puritanesimo inglese, su posizioni molto critiche nei confronti della Chiesa di Stato anglicana. E "Quacchero", sarà il nomignolo inventato dai loro denigratori per ridicolizzare le loro esperienze di culto comunitario.
A Darlington i cappelli neri in stile “pilgrim” con la fibbia alla base del cono, avranno terreno fertile. Nel centro cittadino c’è anche un pub chiamato Quaker House, e naturalmente un punto di ritrovo al numero 6 di Skinnergate, conosciuto come Friends Meeting House. Ed è da lì che bisogna incominciare la storia del Darlington Football Club, o più semplicemente del “Darlo”.
Perché da lì, basta fare qualche passo per vedere e toccare con mano quello che resta del Darlington originario: Feethams.
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Ennesimo stadio senza speranza. Le solite tribune invase dal degrado dell’abbandono. La solita erba che nessuno calpesta più a parte qualche animale, e che continua a crescere, quasi non come normale ciclo biologico, ma come se sperasse che nel suo aumento esponenziale e selvaggio, qualcuno si accorga della sua presenza, e venisse ancora una volta a tagliarla, a curarla, e a farci rimbalzare un pallone. Un'altra triste e solitaria fine di un impianto inaugurato calcisticamente nel 1883, quando nel luglio di quell’anno, fu convocata una riunione alla Grammar School, e nacque il sodalizio sportivo guidato dall’ingegnere locale Charles Samuel Craven.
Da quel giorno, al 3 maggio 2003 quando Neil Wainwright ha segnato l'ultimo gol nel venerabile stadio, con un colpo di testa nel pareggio per 2-2 contro il Leyton Orient, passarono 120 lunghi anni. Feethams era campo insolito, in quanto dopo aver varcato i tornelli attraversavi le cosiddette Twin Towers (non quelle di Wembley.. ), e dove i sostenitori più caldi per molti anni hanno avuto la possibilità di cambiare vista a metà tempo, accorrendo in massa dietro la porta dove il Darlington stava attaccando. In gergo trooping..
Torniamo all’inizio. Per la fine c’è tempo. Ben presto il Darlington crebbe fino a diventare uno delle formazioni leader nella Contea del Durham, e nel 1889 divenne uno dei dieci membri fondatori della Northern League. Un’adesione che fu coronata dalle affermazioni sportive, segnate dalle vittorie nei campionati del 1896 e del 1900. Nel 1908 la domanda del club di aderire al professionismo venne accolta, e nel 1911 il “Darlo” raggiunse il suo miglior traguardo di sempre nella FA Cup. Un’impresa ripetuta nel 1958 quando anche il corrispondente del Times, restò sbalordito dal vedere i “Quakers” abbattere il Chelsea 4-1 e guadagnare il quinto turno. Ma la Coppa d’Inghilterra porterà un altro piccolo record nella storia della società. Infatti, non appena la federazione dette il benestare per le partite in notturna, la prima gara del torneo giocata sotto la luce artificiale, fu a Feethams, e festeggiata con la vittoria per 3-1 sul Carlisle United.
Da queste parti passò anche Brian Clough, ma a spezzare un sogno. Nel 1968 con il suo Derby County, si impose in un rocambolesco 5-4 e in semifinale della Coppa di Lega ci andarono i “rams”.
Se volete spendere un nome a Darlington, è uno solo: Brian Little.
Per il nativo di Newcastle, che ha lasciato un segno indelebile come attaccante dell’Astonvilla, era il primo incarico ufficiale da manager. Raccolse i bianconeri nel fondo della Football Conference sostituendo Dave Booth, e in due stagioni, vinse due titoli, portando la squadra in Terza Divisione. La vittoria del 1990/91, resta iconico torneo non solo dal punto di vista sportivo ma anche perché ottenuto ai danni dei rivali di sempre del Hartlepool United staccati di un punto in classifica. I meriti passeranno dalle mani del portiere Mark Prudhoe, dalla solidità di difensori come Jimmy Willis, dal talento dei centrocampisti David Cork e Sean Gregan, e dalla vena realizzativa di David Geddis.
 
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Feethmans chiuderà i battenti nel 2003. Nel 1999 c’erano state le prime avvisaglie di bancarotta. Le sterline di George Reynolds salvarono il Darlington e se si fosse fermato lì, sarebbe stato ricordato alla grande. Purtroppo come tutti i milionari eccentrici ci volle mettere del suo, e iniziò a varare piani per la costruzione di un nuovo stadio con conseguente abbandono del vecchio campo da gioco. Così il “Darlo” si trasferì nella nuova “Reynolds Arena” ma i soldi spesi strinsero in una morsa di debiti il club, costretto poco dopo all’amministrazione controllata, e consegnato nelle mani di Stewart Davies.
Ah, il nuovo stadio oggi non si chiama più Reynolds, ma semplicemente Darlington Arena. E il “Darlo” rinominato Darlington 1883, ha fortunatamente evitato un fallimento di misura maggiore, vincendo fra l'altro nel 2011 il prestigioso FA Trophy. Meno male, bravi, ma che nessuno si tolga il cappello da queste parti. Sono Quaccheri..

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di SIR SIMON

sabato 17 agosto 2013

Gli anni dei Vescovi

Altra bella storia raccontata da Sir Simon! 


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La mattina del 22 aprile 1939 Laurie Wensley andò a lavorare come al solito. Diciannove anni all’anagrafe cittadina e qualcuno in più scritto dalla fatica su quel volto glabro, che ogni sera puntava la sveglia alle sei del mattino. Sulla sedia di legno della camera era poggiata una borsa da calcio accuratamente preparata, mentre ai piedi del letto, ne giaceva un'altra, molto più sbrigativa e spartana, con dentro scarpe rovinate, scolorite e annerite, insieme alla divisa da lavoro. Scese al piano di sotto, dove la madre premurosa gli aveva preparato la sua colazione preferita.. uova fritte, bacon, purea di patate e broccoli. Insieme a due colleghi salì con ancora gli occhi pesanti sul camion della ditta mineraria, dove aveva trovato occupazione. C’erano da consegnare 200 sacchi di carbone per dieci tonnellate di peso totale. Quantità media per il fabbisogno settimanale dei clienti nella zona di Bishop Auckland, contea di Durham. Sul pesante mezzo, le gocce di pioggia, scivolavano zigzagando a scatti sul vetro che lasciava intravedere il cielo di una bugiarda primavera. Tempi difficili. Il settore minerario del nord-est dell’Inghilterra mostrava segni d’ampia crisi, dopo il boom impiegatizio di un decennio prima. Scoppierà la guerra? Non sarebbe dipeso da lui. Quella sera invece, forse qualcosa sarebbe dipeso dalle sue qualità. Nel primo pomeriggio, smontati gli abiti da lavoro, sarebbe partito con la sua squadra alla volta di Sunderland, verso Roker Park per la finale dell’Amateur Cup.

Lui era il centravanti del Bishop Auckland, e sapeva che molto dell’esito di quell’incontro passava dai suoi piedi. Quei piedi ereditati dal padre Harry, anch’egli calciatore per passione dei “vescovi” e che nel 1921 aveva giocato e vinto il quarto trofeo per questo club, battendo a Middlesbrough lo Swindon Victoria per 4-2. Poi la storia avrebbe consegnato al sodalizio altre due coppe, l’ultima nel 1935. A Sunderland allo stadio ci sono oltre ventimila persone. Tutte indossano giacca e cravatta, sfoggiano rosette colorate, e agitano sonagli, e i giocatori appaiono altrettanto ben curati ed eleganti. Il prisma del calcio che cambia secondo le epoche. Per il figlio d’arte la partita non sarà così semplice. I tempi regolamentari restano fermi a reti inviolate. Il Willington non molla. Poi durante l’appendice dei supplementari Laurie Wensley si sblocca, infilando tre volte la porta avversaria e regalando l’ennesimo trionfo ai “The Two Blues”, obbligando il custode del museo del Bishop Auckland FC a provvedere all’acquisto della settima teca.

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C’è un ventenne in quella squadra. Un talento sbocciato nella contea che di nome fa Robert Paisley. A tredici anni gioca con l’Hetton Juniors, e il Bishop Auckland se ne assicura le doti sborsando la “somma principesca” di tre scellini e sei pence. Il Liverpool era già sulle sue tracce, ma prima che Bob potesse firmare i moduli del contratto per i Reds, giocò anche un altra finale di coppa per i Vescovi il 6 maggio 1939, quando sconfissero il South Shields, sempre a Roker Park, per prendersi la Challenge Durham Cup e completare il loro acuto. Appena due giorni dopo, l'8 maggio, Paisley scendeva a bordo di un treno sbuffante alla stazione di Exchange Street a Liverpool per iniziare una collaborazione con la società di Anfield Road che sarebbe durata più di mezzo secolo.

“Passi.. Catenacci di ferro appena smossi, umido e silenzio. Quelle guglie di granito, sembrano spilli infilati nel cielo sopra Auckland Castle. Si arrampicano a cercare risposte che non troveranno. Mentre il vento tormenta gli argini del fiume Wear e spazza colline ondulate. State lontani, mi raccomando, quando la luna balla tonda ed ubriaca, state lontani perché la notte qui vi afferra per la gola e vi riempie gli occhi delle visioni di Ranulf. L’antico Vescovo cammina ancora, in equilibrio senza cadere sconfitto nell’abisso dell’eternità. Ci deve svelare il suo segreto occultato, le pergamene che ancora infiammano il suo cuore. State lontani, il profilo di Rudolf Flambard, primo prigioniero trascinato nella torre di Londra, si muove lento su gradini di marmo. Troppo silenzio per non urlare, un silenzio che implora giustizia o forse perdono, in cerca di calore, che nemmeno quel crocifisso saldo nelle sue mani riesce a emanare, nell’aria fumante d’incenso. Potete vedermi?, potete sentirmi?, potete parlarmi?. Io sono Rudolf Flambard, vescovo di Durham e Bishop, giustiziato per esorcismo.”

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E che Bishop sia terra di Vescovi, lo dice la parola. Era la residenza principale dell’episcopato di Durham. Il legame si riflette esplicito nella prima parte della denominazione cittadina. Meno chiaro, a tutt’oggi il suffisso “ Auckland” . La versione maggiormente accreditata parla di "roccia o scogliera sul Clyde". Chiarissima, invece, la genesi del club calcistico.

Anche qui la religione ha il suo peso specifico. Un gruppo di studenti di teologia di Cambridge e Oxford, residenti nella cittadina vescovile, che accantonate per un attimo le Sacre Scritture, decidono di fondare una squadra conosciuta come Bishop Church Auckland Institute. In seguito nel 1886, una controversia causò una scissione di un gruppo reclamato come Auckland Town, e sarà da questo trambusto, che il Bishop Auckland Football Club finalmente nasce nella sua forma moderna. Otto giorni più tardi arrivò anche la fatidica scelta cromatica. Si propese per il blu chiaro e limpido di Cambridge, unito a quello più scuro e profondo di Oxford. Ed ecco i vescovi colorati dai “Two Blues.”

"Stan è magro e minuto, timido, introverso quanto basta, e frequenta la Grammar School di Bishop. I suoi genitori gestiscono l'Eden Theatre ora demolito, che si trovava all'incrocio fra Newgate Street e South Church Road. Ha delle doti. Il padre Arthur, abile artista ed impresario se ne accorge e prova a farli fare carriera nel mondo dello spettacolo. Grazie signor Arthur, grazie signor Arthur Laurel.. suo figlio, quel ragazzino mingherlino, svampito e pasticcione, con due orecchie a sventola e i capelli rossicci arruffati tenuti sempre alzati all'insù, e che si gratta quando inizialmente non riesce a comprendere qualcosa che gli sta accadendo è diventato l’attore comico Stan Laurel. E’ diventato il celeberrimo Stanlio, in coppia con Oliver Hardy in arte Ollio.. Oggi Stan c’è una statua per te in un parco di Bishop. E quel bronzo fa sorridere anche se non parla. Proprio come facevi tu."

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Nel 1955 il Bishop Auckland ritorna a vincere una finale di Amateur Cup. In città si parlò di 22000 programmi venduti e 15000 biglietti acquistati. Sono gli anni d’oro. La prima di tre storiche vittorie consecutive nella manifestazione. A Wembley davanti a 100000 spettatori contro i londinesi dell’Hendon. E’ il 16 aprile. Il Bishop Auckland, in quel momento è veramente una big del calcio non professionistico. Si porta dietro tra le sue file ben otto giocatori internazionali..

Alla mezz'ora, il portiere Reg Ivey dell’Hendon ebbe una reazione troppo lenta sul passaggio di Seamus O'Connell, che permise a Derek Lewin di indovinare un delizioso pallonetto per la rete del vantaggio, nonostante il disperato tentativo di recupero del difensore in maglia verde Dexter Adams.

Dopo venti minuti dall'inizio della ripresa, è ancora O'Connell a provocare scompiglio. La sua esperienza in club di massima divisione si fa sentire eccome. Il suo tiro verrà respinto da Ivey, ma sulla ribattuta è prontissimo Derek Lewin ad insaccare. La FA Amateur Cup riprende la strada del nord. E Bobby Hardisty il capitano, e forse uno dei più famosi calciatori della storia di questo club, può finalmente alzare quel trofeo sfuggitoli per ben tre volte.


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L’anno seguente l’avversario, per lo meno nel primo match si dimostrò più ostico. Il Corinthians Casuals strappò un primo pareggio, per 1-1, ma poi nel replay giocato all’Ayresome Park di Middlesbrough il Bishop passeggiò sui corinzi grazie alla doppietta del solito Lewin, e ai centri di Hardisty e Stewart per un rotondo 4-1 finale. Seamus O’Connelly l’ex Chelsea, decise di diventare commerciante di bestiame. Disse di stare a suo agio più nell’erba dei pascoli fra le sue mucche, che in quella del campo di calcio.

Infine il canto del cigno. L’ultimo trionfo, datato 13 aprile 1957 quando Il Bishop Auckland sconfiggerà i Wycombe Wanderers, che ironia della sorte avevano gli stessi colori della squadra della Contea del Durham, per gli stessi motivi legati alle suggestioni universitarie. Questa volta finirà 3-1 davanti ai 90000 dell’Empire Stadium. Immancabile la rete di Lewis. Poi un bel goal di Bradley, e uno di Bill Russell, che segnò per la prima volta in una finale. Nell’occasione si ritirò Jimmy Nimmins. Uno che lavorava duro in acciaieria e guadagnava qualche sterlina in più con quel pallone.


E oggi cosa resta di tutto ciò a Heritage Park. Potremmo giocare con la parola stessa, con la sua traduzione. Un patrimonio, un retaggio di gloria. D’altri tempi, ma pur sempre una scia luminosa di storia che ha attraversato quel cielo dipinto da due blu.


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We are The One and Only Wanderers...

 Onorati come sempre di pubblicare l'ennesimo grande racconto di SIR Simon!



Mettergli un po’ di sale in zucca? Inutile, tempo sprecato. Più probabile oggi realizzi uno dei suoi goal. D’altra parte in fondo è il suo mestiere, quello che vuole la gente da lui. E poi magari festeggerà aggiustandosi quella fascetta da tennista che tiene in testa, e alzerà il braccio verso l’alto. Non in maniera rigida, rabbiosa, sprezzante, bensì molle, quasi stancamente, come se anche esultare gli costasse fatica.

E allora, come previsto, segna. Accade al minuto trentatré del primo tempo quando raccolse una gemma di Roy Greaves colpendo di mancino inesorabilmente alle spalle di John Butcher. E lui se la rise, guardando compiaciuto tutta quella folla in estasi, arrivata da Bolton per veder sancita una promozione nella massima serie che mancava ormai da ben quattordici anni.

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Ok, facciamo ordine. Il suo nome completo è Frank Stewart Worthington da Halifax, uno dei calciatori più talentuosi e abili nella storia del calcio inglese. Della sua grazia sopraffina con il pallone se ne accorgono per primi a Huddersfield nel 1966, e con loro contribuirà alla promozione del club in Prima Divisione nel 1970. Si trasferisce a Leicester nel 1972, dove vi trascorre un periodo di successi, prima di riunirsi con il suo ex manager Ian Greaves, al Bolton cinque anni dopo.

I suoi centri spettacolari del campionato 1977/78 faranno impazzire Burnden Park, trascinando i trotters nelle parti alte della classifica. E i tifosi ovviamente lo amavano. Come si può amare di un amore profano uno spirito anticonformista. Tutti sapevano del suo tenore di vita, della passione per le macchine sportive, la sua debolezza per le belle donne e le ore piccole. Negli anni di Bolton se ne andava in giro con una reginetta di bellezza delle isole Barbados. Il solito Maverick insomma. Uscito dalle mille correnti del mare mosso degli anni settanta. Non il primo, e nemmeno l’ultimo.

Worthington aveva accettato di lasciare Leicester nel 1977 e di collaborare ancora una volta con il suo vecchio manager. Certo non era arrivato gratis. Il Bolton sborsò oltre 90000 sterline per averlo. Ma nel giorno più importante del campionato nessuno si preoccuperà di tutti quei soldi. Sarà sua la rete che permise la vittoria a Ewood Park contro il Blackburn Rovers, utile per riportare il vecchio Bolton alla conquista di un campionato, con quell' unico e indimenticabile sigillo che valse partita e stagione.

Bolton? Quasi. Esattamente Horwich un miglio circa a ovest del centro cittadino, dove arriva il respiro ingombrante della Grande Manchester. Il club fu fondato nel 1874 con il nome di Christ Church FC da un gruppo di studenti della Christ Church Sunday School di Blackburn Street, sotto la supervisione del loro maestro di scuola, Thomas Ogden. Il primo presidente fu il vicario della Christ Church, protagonista della scissione del sodalizio avvenuta nel 1877 al Gladstone Hotel da cui nacque la società attuale.

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Wanderers: vagabondi, perché al club non era mai stato assegnato un proprio terreno di gioco in maniera stabile. Dapprima eccoli al Park Recreation Ground, poi al Cockle's Field, in seguito al Pike's Lake Ground, infine definitivamente fino al 1997 a Burnden Park.

Ian Graves e le sue rughe dipinte sul volto, lasciarono Huddersfield nell'estate del 1974. Entrò nel Bolton Wanderers inizialmente come assistente di Jimmy Armfield. Ma quando Armfield se ne andò a rimpiazzare Don Revie al Leeds United, fu promosso allenatore in prima, prendendo in consegna una squadra che comprendeva un gruppo di discreto talento.

E con qualche innesto riuscì nell’impresa di vincere la Seconda Divisione inglese del 1978.

Bolton, è terra di rivoluzione industriale e di slanci religiosi riformatori. Dall’inventore Samuel Crompton, all’predicatore protestante George Marsh messo al rogo per eresia dalla regina Maria la sanguinaria. Nei dintorni della città, presso Halliwell, troverete all'interno del vecchio maniero di Smithills Hall, la sua impronta del piede. Narra la leggenda che riaffermò così solidamente la sua fede, mentre veniva “esaminato”, che la sua impronta s’impresse nel pavimento in pietra..

Scansati gli immancabili fantasmi, torniamo a parlare dei trotters. Prima di quel fatidico 1978 erano stati due gli avvenimenti principali che avevano scosso la Bolton sportiva del dopoguerra. Il primo è un ricordo tragico, si tratta del disastro avvenuto a Burnden Park nel 1946 e passato stranamente sempre sotto troppo silenzio.

Una tragedia dimenticata. Una tragedia occorsa esattamente 67 anni fa: il 9 marzo 1946: sesto turno di FA Cup, da disputare tra i padroni di casa e lo Stoke City. Il Bolton aveva già vinto la FA Cup negli anni venti ed era alla ricerca di un'altra affermazione. Lo Stoke invece non aveva mai vinto la Coppa ma nelle sue fila militava una leggenda del calcio inglese, Stanley Matthews.

La possibilità dunque di vedere Stanley Matthews e la fortuita coincidenza che il campionato non era ancora iniziato dopo la guerra, rendevano il torneo più popolare che mai, e questa gara in particolare.

Non si trattò di una gara sold-out: il picco di pubblico per quella stagione fu di 43,453 spettatori, ben al di sotto del record assoluto dello stadio, stimato in 70.000 spettatori. Se a ciò si aggiunse che la Burnden Stand con i suoi 3.000 posti era ancora requisita dal Ministero per gli approvvigionamenti, e che i tornelli sull’immenso Embankment Stand erano chiusi, si arrivò ad una concentrazione di pubblico sugli ingressi dell’altra gradinata.

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I tifosi iniziarono ad arrivare a centinaia dall’una del pomeriggio, e alle due e mezzo, l’enorme Embankement Stand era già al pieno della sua capacità.

Alf Ashwort, testimone oculare presente alla partita, dal suo punto di vista privilegiato dalla gradinata opposta ricorda:

“L’ingresso era solo da Manchester Road, e subito a destra dei tornelli c’era un bar. La gente si riuniva attorno a questo bar, e non si muoveva da lì, nonostante fosse evidente che c’erano altri locali più avanti”.

Alle 14.40 i tornelli vennero chiusi, benché centinaia di persone stessero ancora cercando di entrare allo stadio. Molti entrarono nell’Embankement Stand, già sovraccarico di persone, dalla ferrovia che passava li vicino, semplicemente rimuovendo pezzi di recinzione fatiscente. La gente già nella tribuna era spinta dalle persone che continuavano ad entrare. Al calcio d’inizio successe l’irreparabile: la folla che continuava a entrare dal lato della ferrovia spingeva sempre più le persone all’interno dello stadio, finché una barriera metallica non cedette e, le persone ricorda un altro dei presenti:

“Sembrava che cadessero come un mazzo di carte, la gente veniva portata via in barella, con le braccia penzolanti”.

La partita fu sospesa e le squadre abbandonarono il campo alle 15.12. La polizia ordinò di riprendere la gara meno di mezzora dopo, con le linee laterali del campo dove era avvenuta la tragedia rifatte empiricamente con della segatura.

Oltre la linea laterale giacevano i corpi su barelle improvvisate, coperti con delle giacche. Senza la percezione esatta dell’accaduto le squadre ripresero a giocare semplicemente invertendo le porte e la partita finì senza gol in una mestizia terribile.

Il bilancio della tragedia di Burnden Park parlò poi di 33 vittime e oltre 400 feriti, la tragedia più grande fino a quella occorsa all’Ibrox Park nel 1971.

Meglio andarono le cose nel 1958 quando il Bolton tornò a trionfare in coppa, battendo a Wembley il Manchester United. Ma se non vi è sfuggito la data anche in quel caso siamo reduci da un ennesima tragedia. Quella che coinvolse non il Bolton, ma i loro avversari nella neve dell’aeroporto di Monaco tre mesi prima. Eppure i reduci del disastro, Bobby Charlton su tutti, uniti all’entusiasmo dei ragazzi della squadra riserve e guidati in panchina dal gallese Jimmy Murphy, vista la convalescenza di Matt Busby, arrivò in finale fra l’entusiasmo e la commozione di un intero paese. E tutti tifavano per loro. Tutti volevano che quella coppa andasse allo sfortunato club di Manchester. Non un’ottima prospettiva per il Bolton, che tutto sommato, quella partita se l’era guadagnata. Un po’ quello che successe quando cinque anni addietro tutti volevano la vittoria per il Blackpool di Matthews. Ma a differenza del 1953 i trotters di Bill Ridding non si lasciarono intimidire e ammorbidire dall’impatto ambientale, e vinsero con la doppietta del gigante Nat Lofthouse. E’ vero, all’uscita si beccarono un fitto lancio di pomodori, ma il trofeo se lo portarono a casa.

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Il campionato vincente 1977/78 cominciò in una sorta di derby con il Burnley a Turf Moor, e subito arrivò una vittoria in trasferta per uno a zero, bissata tre giorni dopo dal successo casalingo sul Millwall per 2-1. Graves poteva contare veramente su di un ottimo gruppo. E se vogliamo, a corredo romantico, anche su una delle maglie più belle della storia dell’abbigliamento tecnico del Bolton. Una “umbro” bianca a maniche lievemente tratteggiate, con numero rosso sulla schiena e pantaloncini royal navy. Uno sballo, che anche oggi fa le fortune dei venditori di divise da calcio vintage.

In porta James “Jim” Martin McDonagh uno dei migliori estremi difensori che hanno mai difeso la porta del Bolton. Davanti a lui si distinguevano l’irlandese Tony Dunne, il roccioso Paul Jones e i baffi curati del centrale Sam Allardyce. Accanto a Big Sam si muoveva l’elegante Mick Walsh. In mezzo al campo spiccava la qualità di Roy Graeves nascosto spesso dalla sua barba scura, l’infaticabile ragazzo di casa il piccolo e tosto Brian Smith, e poi ecco l’esperienza del pilastro Peter Reid, a urlare ordini all’espressione sofferente e grintosa di Alan Gowling e all’abile ala scozzese Willie Morgan. Quest’ultimo, un altro idolo di Burnden Park cui i tifosi dedicarono la canzone: “We’ve got Willie, Willie, Willie, Willie Morgan, on the wing, on the wing…”

A disegnare strategie per il già citato Worthington, ci pensò l’ex giocatore del Liverpool Peter Thompson e Ray Train che accesero la scintilla letale di Neil Whatmore, con la sua maglietta perennemente fuori dai pantaloncini, autore in quella benedetta stagione di diciannove centri.

In ogni caso non fu così semplice. Il palo colpito da John Radford nell’ultima di Blackburn trema ancora. Il Southampton e il Tottenham Hotspur poi, minacciarono costantemente la squadra di Greaves. Ci furono momenti difficili come quello seguito alla sconfitta patita a White Hart Lane, ma ugualmente altri magnifici come la vittoria al Bramall Lane per 5-1, e quella interna per 6-3 sul Cardiff City. Alla fine la classifica finale disse Bolton 58, Saints 57 e Spurs 56.


Tutte e tre furono promosse in Prima Divisione, ma la coppa la sollevarono quei vagabondi di Burnden Park.


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The Fields of Green

Racconto di Sir Simon

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Maggio 1987..

La Mini red flame corre nel verde e suggestivo Northamptonshire. Strade ondulate che circondano il piccolo promontorio di Arbury Hill, tagliate dal placido scorrere del fiume Nene. Riflessi di memoria: Alla radio passano l’ultimo successo di Boy George “Everything I Own”. La Mini classica, l’ultima versione, dotata di carreggiate allargate, freni anteriori a disco, codolini in plastica nera sulle ruote, e nuovi rivestimenti interni. Fotogrammi di eleganza e stile tutti britannici. Ritagli di gioventù, di un'altra epoca.

L’odore di cuoio pervade ogni stradina e ogni anfratto di una città sonnambula, sorniona, quasi volesse evitare di far sfoggio delle sue perle neppure troppo nascoste. Ogni tempio, inteso come shoemaker factory, racconta una storia propria, ma tutti rivelano il patrimonio comune, di un’arte che ha insegnato al mondo come abbigliare il piede.

Northampton. Frammenti di quel “piccolo mondo antico” in cui il tempo era scandito con metodica lentezza, fascino, e assoluto rigore artigiano.

Cobblers. I calzolai.

Una tradizione calzaturiera illustre, che risale ai tempi di Oliver Cromwell, quando l'era delle fabbriche non era ancora sorta, ma in migliaia, nelle capanne dal tetto di paglia, seguivano la loro vocazione con semplicità e naturalezza, provvedendo non solo ai bisogni della loro comunità rurale, ma rifornendo regolarmente le città vicine ed anche altre parti del paese.

Tomaia, trincetti, lesine. Verso Wantage Road, il rumore del martello sui tacchi si fa più incessante.. Al County Ground i calzolai hanno vinto il torneo di Quarta Divisione..

E senza Tony Barton. Si proprio lui. Il manager, che a sorpresa era diventato campione d’Europa con l’AstonVilla, e che altrettanto a sorpresa nel 1984 aveva firmato come allenatore dell’Northampton Town. Povero Tony, forse il suo cuore debole che sempre l’ha accompagnato e ne ha deciso le sorti, non era adatto alle grandi pressioni. Meglio la campagna e un piccolo club. Che poi tanto piccolo forse non lo era nemmeno, visto che l’ambizione sportiva lo trascinò circa vent’anni prima, addirittura nella massima serie seppure per un solo campionato. Quando Barton abbandonò la panchina per problemi di salute, a County Ground arriva Graham Carr con le sue guance paffute e l’inseparabile flat cap di lana grigia.

Nella sua prima stagione in carica terminerà il campionato in ottava posizione. Un trampolino di lancio discreto per tentare qualcosa di meglio. E il meglio arriverà. Puntuale, com’erano allora le stagioni. Come i narcisi della primavera inglese del 1987, in cui i cobblers solleveranno quel trofeo, e guadagneranno la promozione.

Una stagione da incorniciare. Novantanove punti.. segnando 103 gol, ventinove dei quali porteranno la firma di Richard Hill che grazie a quei centri approderà a Watford per la lauta somma di 265000 sterline. Un altro record, questa volta economico, per le casse del club.

Il Northampton Town si era formato ufficialmente il 6 marzo 1897, dopo tutta una serie di fitte riunioni fra insegnanti di scuola del distretto della città e un avvocato locale, un certo AJ “Pat” Darnell, nelle sale del Princess Royal Inn, in Wellingborough Road. Fra una tazza di tè, e una partita a Whist, nasce la squadra di calcio. Non senza qualche contestazione. Servirà una vertenza per decidere il nome del sodalizio, che non avrebbe dovuto confondersi con l’appellativo del gruppo cittadino di Rugby. Alla fine basto aggiungere il suffisso “Town” e tutto fu risolto. Con ampi sorrisi sotto i baffoni a manubrio.


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Solo una squadra riuscì a battere in casa i calzolai nella stagione 1986/87. Il merito, se così lo possiamo definire andò allo Swansea che si impose con una rete di Colin Pascoe, in faccia a quelli della Spion Kop, covo dei tifosi colorati di claret and white.

Ovvio. Difficile sconfiggere quel Northampton. Il Preston North End ci provò, ma restò indietro di nove lunghezze, il Southend lontanissimo a meno diciannove. Numeri. Fredde statistiche. La realtà, parla di un insieme di ottimi giocatori, fra i quali spiccavano le doti del giovane centrocampista Eddie McGoldrick proveniente dal Nuneaton Borough, con molta probabilità, l’uomo chiave del successo della squadra di Carr. Per il quale, al termine dell’esperienza con Northampton e Crystal Palace, nel 1993, si apriranno le porte di Highbury, e per un ragazzo nato a Islington, non deve essere stato davvero un brutto affare.

Con lui il capitano Trevor Morley, che l’anno successivo se ne andrà a Manchester sponda City, e dopo ai londinesi del West Ham. E poi il portiere Peter Gleasure, Phil Chard (250 partite con il club di County Ground), Warren McDonald, il difensore centrale Keith McPherson, la sua spalla Russ Wilcox, e il sempre pronto Dave Gilbert. Un po’ meno si vide il figlio di Carr, Alan, che sedeva sulla panchina con papà con tanto di cartella scolastica. Graham voleva diventasse in futuro un calciatore, invece presto lascerà palla e scarpette, e farà successo come comico, tanto da diventare uno dei più bravi interpreti dell’umorismo inglese.

Oh Northampton, come doveva essere stata buona la birra quell’anno sotto i tetti aguzzi del County Tavern Pub..

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The fields are green the skies are blue,
the river Nene goes winding through,
the market square is cobbled stones,
it shakes the old dears to the bones,
a finer town you'll never see,
a finer town you'll never be,
your city lights don't bother me,

Northampton Town i'm proud to be..

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