sabato 23 novembre 2013

Saints Memories

Ne sta arrivando un'altra. Più dolce. L’ennesima onda che bacia di mistero la riva. Ti viene voglia di bagnarti i piedi, di toglierti le scarpe, di farti accarezzare da quell’acqua gelida. Ti viene voglia di chiudere gli occhi, di non sentire più i rumori del porto, le urla dei gabbiani, il mormorio sommesso di gente che passa distratta intorno a te. Percezione di fantasmi. Quelli partiti e non più tornati. Quelli non più trovati. Quelli che dovevano arrivare a New York e invece il 14 aprile 1912 a bordo di un enorme transatlantico nero costruito nei cantieri navali Messrs di Belfast, 400 miglia a sudest della costa Canadese si scontrò con un enorme iceberg:

La vedetta Frederick Fleet lo vide solo quando era ormai a 500 metri di distanza..

“Iceberg di prua, signore!”

Il primo ufficiale William M.Murdoch ordinò:

“Tutto a dritta. Indietro a tutta forza..”

La repentina virata a sinistra si rivelò inutile, trentasette secondi dopo l’avvistamento avviene l’urto a prua, sulla fiancata destra della nave, sei dei sedici compartimenti stagni rimarranno danneggiati, e a sei metri di profondità l’acqua incominciò a filtrare nella nave. 1517 vittime.

Di cosa abbiamo bisogno. Di certezze o di sogni?. Forse di entrambe le cose. Forse è vero che serve un briciolo di sana follia per creare qualcosa che valga la pena, essere considerata. Ricordata. Southampton ci ammaliava con qualcosa di particolare, di vagamente incomprensibile, se si ritiene le geometria applicata all’architettura un qualcosa di simmetrico e non barocco. Il Dell era tutto è di più.

Possenti edifici medievali ci guardano. Angeli custodi delle città di mare, preda quotidiana d’ incursioni nemiche. Il Dell era quello che volevi per affermare l’unicità di un luogo e di un culto.

ll Dell era lo stadio dei santi, quelli che ora giocano sulle rive dell’Itchen, cercando la spiritualità delle origini, ma che di santità e rispetto, ne hanno sempre meno, come tutti.

Il Dell è stato il primo stadio ad aver installato un impianto d’illuminazione permanente, ed è stata la casa del Southampton FC per 103 anni. Freddo. Usciamo da quest’acqua che nemmeno lei è la stessa. Il Dell con la sua tribuna obliqua. Uno degli ultimi satrapi cui le concubine del vero calcio inglese si sono concesse. Investito, abbattuto, da un complesso residenziale su cui i condomini, in un coraggioso gesto di memoria fanno incidere accanto alle loro porte d’appartamento, nomi che si perdono nel vento, ma che il vento nel suo ciclo di eterno ritorno fa annusare ancora. C’è anche un Dio, fra questi. In ginocchio, miscredenti. Mattew Le Tissier da Guernsey. Troppo francese quel nome. Quelle coste troppo vicine. E lui risente i difetti secolari della reggia di Versailles. Aristocratico, elegante, indolente. Eppure un genio. Un lucido artista del calcio. Il primo centrocampista a segnare 100 gol in Premier League. Non è l’unico nome. Non ci sono altre divinità forse, ma altri piccoli grandi eroi che qui hanno fatto le loro imprese. Provate a suonare i campanelli a Bobby Stokes , Ted Bates , Danny Wallace o a Mick Channon. Non vi apriranno loro, ma qualcuno disposto a raccontarvi della sua fede nei “Saints”, e della storia di questo club lo troverete di sicuro. Fra il sacro e il profano.

Vi diranno di un curato che fondò il St. Mary Church young men's (abbreviato in "YMA St Mary") che poi divenne semplicemente S. FC of Mary nel 1887-1888, prima di adottare il nome di Southampton St. Mary quando il club si unì alla Southern League nel 1894, finchè dopo aver vinto il titolo nel 1897, fu ribattezzato semplicemente Southampton FC. Ma si, come no. Vi diranno anche che quel giorno faceva un gran caldo. Un’ondata di caldo anomalo che nel 1976 aveva colpito l’Inghilterra. Inconsueto come quel vinile di Jasper Carrott chiamato “Carrott in Notts” che accompagnò il Southampton a Wembley per la finale di FA Cup. Era il primo di maggio e la città era vuota. Letteralmente. Tutti a Londra. O tutti davanti alla TV. A colori o in bianco e nero. Anzi in bianco e rosso, non c’era alternativa. La squadra allenata da Lawrie McMenemy la stava per combinare grossa. McMenemy era uno del nord. Nato a Gateshead, specchio fedele della Newcastle che si affaccia sul Tyne. Ha il naso grosso e un sorriso convinto. Arriva dal Grimsby Town, dove ha vinto un campionato di Quarta Divisione. Al vecchio Dell troverà un club di seconda Divisione formato da un gruppo non giovanissimo. Eppure il destino aveva in serbo un regalo: Un dono brillante come quella coppa d’argento, posata sul palco reale davanti alla Regina Elisabetta. E lucente di gloria, come quelle maglie gialle indossate quel giorno dai Santi.

Il Manchester United aveva il dente avvelenato. L’infausta retrocessione patita due anni prima, e per ironia della sorte dettata dall’ex Dennis Law davanti ai muri piangenti del tempio di Old Trafford andava vendicata con una grande vittoria. Tommy Docherty manager scozzese dei red devils lo sapeva, e non doveva sbagliare.

Centomila. Ian Turner portiere del Southampton, lì vede. Non è un miraggio. E allora si esalta. Quando l’orologio nei primi venti minuti decide di non scorrere il santo è solo lui. Para tutto, gioca la partita della sua vita, e infonde fiducia alla squadra. Qualcuno alla BBC disse che il risultato non poteva essere che in doppia cifra a favore di quelli di Manchester. Oracoli cattivi e falsi.

Quando il pulman del Southampton era penentrato a fatica fra due ali di tifosi entusiati nel cuore di Wembley, il bus involontariamente, aveva colpito uno spettatore e tutti i giocatori si erano molto preoccupati quando entrarono negli spogliatoi. Peter Rodrigues il capitano non è tranquillo. Torna in strada. Chiede informazioni. Lo rassicurano, tutto a posto, il ragazzo sta bene. Solo allora rientra, indossa la maglia, e entra nella luce abbagliante del campo. Lui è Il capitano. E come tutti i capitani hanno qualche ferita. Nel fisico e nel cuore. Si riconosce subito. Inconfondibile quel gallese. Il capello brizzolato, un leggero riporto, e occhi azzurri sopra baffi da serioso ufficiale di frontiera.

Mike Channon gli si avvicinò, prima della rituale presentazione alle autorità. Channon è un capelluto centrocampista, appassionato di cavalli.. Gli dice che non avrebbe scommesso un penny sulla vittoria, ma chi lo ha fatto non ha sbagliato. Ossimoro da ippodromo, da chi non dice mai di aver giocato un brocco 10 contro 1 finché non vince e dimostra a tutti la sua competenza.

In quella squadra c’era anche “Ossie” Peter Osgood lo stravagante ex Chelsea approdato a Southampton due stagioni prima. C’era soprattutto l’autore della rete decisiva. Un diagonale bello e preciso. Tagliente come una lama nel burro: Bobby Stokes.

Quando ormai la partita si stava incanalando verso un pareggio, che già sarebbe apparso una mezza sorpresa, Jimmy McCalliog intelligente e versatile centrocampista serve Bobby sulla linea di confine e lui infila la palla dietro Alex Stepney, laggiù, nell'angolo più lontano, dove le vecchie e magiche reti di Wembley si facevano ancora più capienti.


Il Southampton aveva vinto la sua FA Cup. A Southampton si festeggiava. Li, dove tutto si unisce. Fiumi, mari e oceani.



di SIR SIMON


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