1887-1957. Sette e non più sette. Forse semplici numeri. O
forse dosi arcane di alchimie esoteriche, oracolari, imperscrutabili e
sentenziose. Vaticini del destino in attesa di essere spezzati, ma che ancora
si annidano sinuosi, viscidi e impalpabili, nelle stanze Vittoriane di Trinity
Road, con la sua bella facciata in mattoni rossi voluta da Fred Rinder, e
inaugurata dal Duca di York.
Gli stessi vaticini che scrutano il Villa Park dagli infissi
bianchi dell’Holte Hotel, mentre qualcuno magari entra trafelato nell’ Aston
Parish Church con una sciarpa di lana claret and blue a guardare verso l’alto,
verso quelle arcate goticheggianti, e più su, oltre il grigio del cielo di
Birmingham, a cercare un motivo, una risposta, un perché. Volti nella penombra
dei pensieri che si fanno più nitidi, più chiari. Jack Hughes, Frederick
Matthews, Walter Price, William Scattergood. Rischiarati da una luce a gas,
eccoli i quattro padri fondatori. Chiusi nei locali della Wesleyan Chapel,
circondati dal freddo nebbioso di una sera d'inverno del 1874.
Sette e non più sette. Nel 1887 arriva la prima FA Cup, nel
1957 l’ultima. In mezzo altri cinque successi. Poi il Sacro Graal sparirà per
sempre. Un oblio che sembrò finire quando il novello Giuseppe D’Arimatea,
all’anagrafe di Scunthorpe, John Gregory, tornò, a inizio millennio per
l’ultima volta nella Gerusalemme sportiva di Wembley a reclamare quella santa coppa.
Gli italiani a libro paga del Chelsea gli dissero di no. Un goal di Roberto di
Matteo a diciassette minuti dalla fine spezzò le speranze, e spense illusioni e
TV della collina orientale della citta delle West Midlands. Quelle di East
Hill, che da “Estone” si trasformò in Aston. Settantatre, o diciassette. Ancora
quello strano numero sette nel mezzo.
Il 4 maggio 1957, l’AstonVilla di Eric Houghton, trilby
verde e soprabito scuro, nonostante il pomeriggio soleggiato, scende a Londra
per il settimo sigillo. Un record in quel momento. Difficile, ma non
impossibile contro il Manchester United di Matt Busby alla ricerca invece di
uno storico “Double” dopo l’affermazione in campionato. John, questa è una
grande giornata, fuori ci sono centomila persone. Fuori ad aspettarlo ma in
maglia bianca a bordi rossi, c’era il ventunenne ma già massiccio Duncan
Edwards. Lo sfortunato Duncan Edwards. John è John Dixon, capitano di un
AstonVilla che aveva fatto una gran fatica per arrivare sotto le torri, ma ora
aveva l’onore e l’onere di indossare quella struggente maglietta di cotone a
righe verticali con cucito sul cuore un leone rampante. Fuori c’era il palco
reale, c’era la regina Elisabetta con uno splendido abito beige, e c’era anche
Filippo Duca di Edimburgo a stringere le mani ai campioni.
C’era l’etichetta inglese. C’era la compostezza e c’era la
frenesia. C’erano l’educazione e il decoro, un tifo chiassoso ma ancora non
sguaiato, ancora non violento, nel sostegno ai loro undici ragazzi. E chissà
forse nessuno dei tifosi presenti a Londra aveva mai visto giocare la loro
squadra con l’orpello scozzese sulla maglia.
L’ultima volta era accaduto nel 1882. C’era stato un
signore, uno scozzese, un uomo d’affari, un certo William McGregor a voler
mettere le tende di tartan agli uffici del club. McGregor è un evangelista
convinto, non beve, non fuma sigari, forse sfugge alle lusinghe di qualche
bella donna, ma non resiste alla tentazione di un pallone che rotola. A otto
anni vede la sua prima partita, e si offrirà di aiutare in qualche modo
l’AstonVilla.
Nel 1878 va in Scozia e compra le divise per la squadra.
Leone Rosso su campo nero. Roba da torneo medioevale, un frammento ritagliato
da una pagina dell’ Ivanohe di Walter Scott. E Leone sia allora.
Purtroppo quel leone non aveva nessuna possibilità di
vittoria contro la donna delle pulizie. A furia di lavaggi il leone diventa
pallido e anemico. Resterà icona del club, ma ruggirà sulle divise di nuovo
proprio in quel fatidico 1957.
Nigel Sims era arrivato fra i pali di Villa Park nel marzo
dell’anno precedente. Aveva vissuto otto stagioni all’ombra del grande Bert
Williams a Wolverhampton, ma finalmente ora le Midlands avevano un sapore
diverso. Quello del protagonista.
Attenzione però.
Il vero protagonista di quella finale sarà esclusivamente
Peter James McParland. Croce e delizia. Lo hai fatto apposta Peter? E’ stato un
incidente? certo poteva avere serie conseguenze.
McParland si scontra con il portiere del Manchester United
Ray Wood. Un impatto violentissimo. Zigomo rotto e susseguente stato
confusionale. Wood deve uscire, anzi no, prima lo barellano, poi pascola
inebetito sulla fascia destra del campo. Busby manda in porta Jackie
Blanchflower. Senza guanti. Uomini di bosco e di riviera. Un'altra epoca.
Wood rientrerà per gli ultimi sette minuti di gioco, quando
lo United è sotto per due a uno. Entrambi i centri portano la firma di
McParland. Il primo con un colpo di testa perentorio sfruttando la pennellata
di Dixon, e il secondo ribadendo in rete la fortunosa respinta corta della
traversa che aveva detto di no al suo capitano. Poi Tommy Taylor accorcia le
distanze per i red devils al termine di una litania di calci d’angolo ma è
troppo tardi. L’FA Cup, colma di champagne finisce nello spogliatoio del Villa
e per le strade di Birmingham. Un giorno passerà da quelle parti anche la Coppa
dei Campioni, fra il sogno e la leggenda. Un giorno riapparirà anche la FA Cup.
Servirà il compiersi di un prodigio, di un intrigo di magie? Sicuramente
occorrerà una buona squadra e un buon allenatore. E quel sette non farà più
paura. Ma tornate a prendere quella coppa. Tornate a bere il sangue del Graal,
villans.
di SIR SIMON
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