Un testo drammatico, crudo, che parla di amore e di morte.
Una donna porta alla perdizione il suo uomo sconvolgendolo coi sensi e poi lo
tradisce. Lui la scopre, si sente ferito, perduto, e la uccide in lacrime. E'
il 1968, quando Tom Jones, ex minatore gallese, aitante e vigoroso, porta al
successo la canzone Delilah. Ne rende credibile la storia attraverso parole
semplici e d'effetto, accompagnate da una musica dolente che colora
efficacemente la vicenda. Fino a qui niente di strano. Una canzone come tante
altre, più triste di tante altre, forse troppo, ma nulla di più. Un singolo che
raggiungerà i primi posti delle classifiche in diversi paesi, Inghilterra
compresa, ma pensare che un giorno venisse associata a un club calcistico per
farne una vera e propria lirica sembrava davvero poco credibile. Succederà in
un pub di Derby. Ma non ai Rams. Succederà allo Stoke City. Siamo negli anni
settanta, i mitici seventies. I potters sono impegnati in trasferta al Baseball
Ground e un gruppo di sostenitori biancorossi è alle prese con l'ennesimo
“rounds” i celeberrimi giri di bevute, dove tutti offrono da bere a tutti in
modo da dividere il conto. Parte l'ennesimo coro. E con il coro qualche
parolaccia di troppo. Indecente. Vietato, non si può. La polizia interviene e
fa abbassare i toni. Bene, non possiamo cantare le nostre canzoni? Nessun
problema, canterà il Juke box per noi, e canterà la canzone più mesta e
malinconica che ha in dotazione. La monetina la inserisce un certo Anton Booth,
poi non appena partono le prime note di Delilah, si alza su un tavolo e tutti a
poco a poco lo seguono nel ritornello: “ My, my, my Delilah, Why, why, why
Delilah..” Fu un trionfo, goliardico, e inaspettato. Da quel giorno Anton Booth
responsabile della società d' assicurazioni Newcastle-based Booth AD &
Sons, sarà per tutti TJ, e Delilah l'inno riconosciuto dello Stoke City
Football Club. La terza squadra più antica al mondo. Anno di nascita 1863 con
il nome di Stoke Ramblers, e con il padre fondatore Henry Almond della Charterhouse
School, che sarà il primo capitano e il primo marcatore della squadra. Uno e
trino. Nel 1888 i biancorossi avranno l'onore di essere tra i dodici club che
daranno vita alla Football League. Siamo a Stoke on Trent per l'esatezza,
Midlands Occidentali .Città terza nel calcio, prima nell’industria della
ceramica. Questo grazie a una zona ricca d'argilla e carbone nonché di sale e
piombo. Nel 1769 Josiah Wedgwood costruirà uno dei primi stabilimenti della
gran Bretagna ancora oggi famoso e in funzione. Un nick name del club, quindi,
scritto nel destino, nel sottosuolo dello Staffordshire. Accoppiamento
inevitabile: Potters, i vasai. Ma partiamo da un giocatore. Il primo. Il primo
giocatore europeo a vincere il Pallone d’Oro. Anno domini 1956. Sir Stanley
Matthews. A essere sinceri il riconoscimento non gli venne assegnato per gli
allori conquistati in quella stagione, quanto piuttosto come omaggio alla
carriera, oltre che alle sue indubbie doti di atleta. Quando France Football
gli consegnò il premio, infatti, The Magician aveva già 41 anni. E nessuna
intenzione di appendere le scarpette al fatidico chiodo. Giocò infatti fino
alla stagione 1964/65, fino a 50 anni, un età impensabile per tutti a certi
livelli, altalenandosi tra la First e la Second Division. Matthews nasce il
primo (e non poteva essere altrimenti) di Febbraio del 1915 a Henley, proprio
nei dintorni di Stoke on Trent. E proprio al Victoria Ground, casa dello Stoke
City, mosse i primi passi della sua carriera, firmando il primo contratto da
professionista nel 1932. Due anni più tardi, diciannovenne, esordiva in
nazionale contro il Galles. Risultato 4-0, e la sua firma su un gol.
Ciononostante le pagelle del Daily Mail lo etichettarono incapace di reggere la
pressione nelle partite più importanti, quelle di cartello. Si sbagliarono.
Matthews era un ala destra, in un ruolo che diventerà un marchio di fabbrica
della scuola inglese. Faccia rugosa, la stempiatura ed i capelli pettinati
all’indietro con la brillantina, rapidissimo con il dribbling nel sangue, tanto
da essere soprannominato The Wizard of the Dribble. I suoi cross erano
pennellate di genio per quegli armadi semoventi che erano gli attaccanti
inglesi del suo tempo. Eppure, in carriera raccolse molto meno di quanto
seminato, limitato forse da squadre non alla sua altezza, e dall'arrivo della
Seconda Guerra Mondiale, che rubò i suoi anni migliori nei quali prestò
servizio nella RAF a Blackpool. Una ridente cittadina turistica bagnata dal
Mare d’Irlanda e meta preferita dei vacanzieri inglesi di fine Ottocento che
volevano fuggire dal grigiore delle città industriali inglesi. Fatto sta che a
Blackpool giocherà 15 anni, per un totale di 391 partite e 17 gol, tutti in
First Division e scriverà le pagine più belle della storia dei Seasiders,
compresa naturalmente quella storica finale di FA Cup contro il Bolton. Ma
torniamo a Stoke e da lì che siamo partiti ed è lì che dobbiamo tornare. Perchè
nel 1961 Matthews accetta di fare ritorno a casa. Il merito del rimpatrio va
essenzialmente a un manager caparbio, bravo a saper sfruttare al meglio
l'esperienza di giocatori all'apparenza troppo in là con gli anni. Si tratta di
Tony Waddington, su cui torneremo fra un po'. Lo Stoke City intanto è
retrocesso in Seconda Divisione nel 1953. Con Matthews riconquisterà la
promozione nel 1963 e due salvezze consecutive negli anni a seguire. Nel 1965
gli arriva il titolo di Cavaliere dell’Impero Britannico per meriti sportivi,
(anche qui il primo sportivo a ricevere quest’onore) poi in febbraio l’ultima
apparizione in campionato, contro il Fulham, a 50 anni suonati. Un uomo e un
calciatore di Stoke. Il più importante ma naturalmente non il solo che ha messo
in luce la città dei vasai. Avevamo parlato di Tony Waddington, nato a
Manchester nel 1920. Come calciatore toccò quasi 200 presenze con la maglia del
Crewe Alexandra, per poi lasciare l'attività agonistica in seguito alle
conseguenze di una ferita al ginocchio mentre prestava il servizio militare in
marina durante la guerra. Uomo ordinato e attento arriva a Stoke nel 1960 e,
dopo la già citata promozione del 1963, focalizzerà la sua attenzione
sopratutto su centrocampo e difesa. Costruirà una linea difficilmente
valicabile che sarà ribattezzata “Waddington Wall”. Nel 1964 giungerà a
disputare la finale di Coppa di lega, ma dovrà arrendersi al Leicester City. In
quel Leicester giocava un giocatore che due anni dopo arriverà a Victoria
Ground da campione del mondo. Non uno qualsiasi. Uno dei più grandi portieri di
sempre del calcio inglese e non solo. Gordon Banks. Uno che se lo guardi
capisci che ha sofferto. La vita lo segna da subito. Portatore di carbone,
muratore, e nel tempo libero per divertirsi una squadra di minatori che dava
calci a un pallone. Ma la sua tecnica non può restare nei campetti del
dopolavoro. Ottimi riflessi, freddezza, buona capacità di guidare la propria
retroguardia. A notarlo il Chesterfield che lo farà esordire nel 1955, fino a
che nel 1959 per 7000 sterline si accasò nella tana delle volpi di Leicester.
Nè difenderà la porta per 293 partite. In nazionale protagonista per quasi un
decennio vincerà la coppa Rimet del 1966, e sarà protagonista di un episodio
passato alla storia. Una parata. Il suo mestiere. Accadde a Guadalajara, nei
mondiali messicani, nell'ormai lontano 1970: il nazionale verdeoro Edson
Arantes do Nascimento, in arte Pelé, si elevò per colpire di testa un cross
indirizzato dentro l'area di rigore dell'Inghilterra dal compagno di squadra
Jairzinho, abile a sfuggire alla marcatura di Cooper, il suo dirimpettaio su
quella fascia. Era goal. Anzi: sembrava fosse goal. Mentre il fuoriclasse
brasiliano stava per esultare Gordon Banks, l'estremo difensore britannico, una
volta compreso che non si trattava di un tiro diretto alla sua porta bensì di
un traversone schizzò da un palo all'altro, riuscendo incredibilmente a deviare
la sfera oltre la linea del campo. "Quando Jairzinho ha calciato il
pallone, ho cominciato a indietreggiare verso la porta. Poi ho valutato la
traiettoria: era impossibile che qualcuno potesse raggiungerla. A quel punto ho
visto Pelé. Sembrava arrampicarsi verso il cielo sempre più in alto, finché ha
raggiunto il pallone e lo ha colpito con tutta la forza che aveva in corpo. E
io sono andato a prenderlo". Lo Stoke City aveva 109 anni nel 1972 ma la
loro sala trofei presentava tristemente più polvere che coppe. E nessuno si
sarebbe aspettato di vincere la finale di Coppa di Lega. Al Victoria Ground,
Waddington aveva portato per 35000 sterline l'intramontabile e inossidabile
George Eastham, centrocampista di 34 anni. Ex Newcastle, ed ex Arsenal.
Settanta goal in dieci anni e una battaglia in tribunale per i diritti dei
giocatori che all'epoca fece scalpore. Con lui gente del calibro di Mike Pejic,
John Ritchie, e Jimmy Greenhoff. Per arrivare alla finale di Wembley lo Stoke impiegherà
11 partite comprensive della storica semifinale con lo West Ham, terminata solo
al terzo incontro in campo neutro all' Old Trafford di Manchester e finito 3-2
per i Potters. In finale si sarebbe scontrato con un nome che in quel momento
faceva tremare molti: Il Chelsea. I blues inizieranno forte. D'altra parte la
squadra di Dave Sexton poteva permettersi gente come Peter Bonetti, Ron
“Chopper” Harris, Peter Osgood, e Alan Hudson. Loro che erano espressione di un
quartiere alla moda, che portavano basette lunghe e folte e con i pantaloni a
zampa d'elefante pulivano i marciapiedi di Fulham Brodway. Ma lo Stoke in
contropiede punge subito dopo cinque minuti con Terry Conroy che di testa in
mischia porta lo Stoke City in vantaggio. Ovvio, il Chelsea non ci sta e Osgood
pareggia le sorti del match proprio in chiusura di primo tempo. Nell'ultima
azione del primo tempo. Un goal che moralmente poteva spezzare le gambe. Gordon
Banks nella ripresa venne chiamato agli straordinari, con salvataggi cruciali.
Ma al 73 ' Bonetti è costretto a una respinta corta sul tiro da centro area di
Jimmy Greenhoff scaturito dal cross radente di Conroy. Sulla palla vagante si
fionda Eastham, e il vecchio leone mai domo regala il trofeo ai Potters. Su un
rinvio di Banks l'arbitro Burtenshaw fischia la fine dell'incontro. E' il
momento degli abbracci e della gioia, fra il calore dei migliaia di tifosi
arrivati da Stoke, e il momento del giro d'onore tra le bandiere e le sciarpe
biancorosse sugli spalti. Sembrava una festa di famiglia scrisse Hugh
McIlvanney nel Observer.
Una festa i cui echi il tempo sta allontanando e che
sarebbe il momento di rivivere. Vero Delilah?..
di Sir Simon
Nessun commento:
Posta un commento