giovedì 12 luglio 2012

I Vasai di Stoke


Un testo drammatico, crudo, che parla di amore e di morte. Una donna porta alla perdizione il suo uomo sconvolgendolo coi sensi e poi lo tradisce. Lui la scopre, si sente ferito, perduto, e la uccide in lacrime. E' il 1968, quando Tom Jones, ex minatore gallese, aitante e vigoroso, porta al successo la canzone Delilah. Ne rende credibile la storia attraverso parole semplici e d'effetto, accompagnate da una musica dolente che colora efficacemente la vicenda. Fino a qui niente di strano. Una canzone come tante altre, più triste di tante altre, forse troppo, ma nulla di più. Un singolo che raggiungerà i primi posti delle classifiche in diversi paesi, Inghilterra compresa, ma pensare che un giorno venisse associata a un club calcistico per farne una vera e propria lirica sembrava davvero poco credibile. Succederà in un pub di Derby. Ma non ai Rams. Succederà allo Stoke City. Siamo negli anni settanta, i mitici seventies. I potters sono impegnati in trasferta al Baseball Ground e un gruppo di sostenitori biancorossi è alle prese con l'ennesimo “rounds” i celeberrimi giri di bevute, dove tutti offrono da bere a tutti in modo da dividere il conto. Parte l'ennesimo coro. E con il coro qualche parolaccia di troppo. Indecente. Vietato, non si può. La polizia interviene e fa abbassare i toni. Bene, non possiamo cantare le nostre canzoni? Nessun problema, canterà il Juke box per noi, e canterà la canzone più mesta e malinconica che ha in dotazione. La monetina la inserisce un certo Anton Booth, poi non appena partono le prime note di Delilah, si alza su un tavolo e tutti a poco a poco lo seguono nel ritornello: “ My, my, my Delilah, Why, why, why Delilah..” Fu un trionfo, goliardico, e inaspettato. Da quel giorno Anton Booth responsabile della società d' assicurazioni Newcastle-based Booth AD & Sons, sarà per tutti TJ, e Delilah l'inno riconosciuto dello Stoke City Football Club. La terza squadra più antica al mondo. Anno di nascita 1863 con il nome di Stoke Ramblers, e con il padre fondatore Henry Almond della Charterhouse School, che sarà il primo capitano e il primo marcatore della squadra. Uno e trino. Nel 1888 i biancorossi avranno l'onore di essere tra i dodici club che daranno vita alla Football League. Siamo a Stoke on Trent per l'esatezza, Midlands Occidentali .Città terza nel calcio, prima nell’industria della ceramica. Questo grazie a una zona ricca d'argilla e carbone nonché di sale e piombo. Nel 1769 Josiah Wedgwood costruirà uno dei primi stabilimenti della gran Bretagna ancora oggi famoso e in funzione. Un nick name del club, quindi, scritto nel destino, nel sottosuolo dello Staffordshire. Accoppiamento inevitabile: Potters, i vasai. Ma partiamo da un giocatore. Il primo. Il primo giocatore europeo a vincere il Pallone d’Oro. Anno domini 1956. Sir Stanley Matthews. A essere sinceri il riconoscimento non gli venne assegnato per gli allori conquistati in quella stagione, quanto piuttosto come omaggio alla carriera, oltre che alle sue indubbie doti di atleta. Quando France Football gli consegnò il premio, infatti, The Magician aveva già 41 anni. E nessuna intenzione di appendere le scarpette al fatidico chiodo. Giocò infatti fino alla stagione 1964/65, fino a 50 anni, un età impensabile per tutti a certi livelli, altalenandosi tra la First e la Second Division. Matthews nasce il primo (e non poteva essere altrimenti) di Febbraio del 1915 a Henley, proprio nei dintorni di Stoke on Trent. E proprio al Victoria Ground, casa dello Stoke City, mosse i primi passi della sua carriera, firmando il primo contratto da professionista nel 1932. Due anni più tardi, diciannovenne, esordiva in nazionale contro il Galles. Risultato 4-0, e la sua firma su un gol. Ciononostante le pagelle del Daily Mail lo etichettarono incapace di reggere la pressione nelle partite più importanti, quelle di cartello. Si sbagliarono. Matthews era un ala destra, in un ruolo che diventerà un marchio di fabbrica della scuola inglese. Faccia rugosa, la stempiatura ed i capelli pettinati all’indietro con la brillantina, rapidissimo con il dribbling nel sangue, tanto da essere soprannominato The Wizard of the Dribble. I suoi cross erano pennellate di genio per quegli armadi semoventi che erano gli attaccanti inglesi del suo tempo. Eppure, in carriera raccolse molto meno di quanto seminato, limitato forse da squadre non alla sua altezza, e dall'arrivo della Seconda Guerra Mondiale, che rubò i suoi anni migliori nei quali prestò servizio nella RAF a Blackpool. Una ridente cittadina turistica bagnata dal Mare d’Irlanda e meta preferita dei vacanzieri inglesi di fine Ottocento che volevano fuggire dal grigiore delle città industriali inglesi. Fatto sta che a Blackpool giocherà 15 anni, per un totale di 391 partite e 17 gol, tutti in First Division e scriverà le pagine più belle della storia dei Seasiders, compresa naturalmente quella storica finale di FA Cup contro il Bolton. Ma torniamo a Stoke e da lì che siamo partiti ed è lì che dobbiamo tornare. Perchè nel 1961 Matthews accetta di fare ritorno a casa. Il merito del rimpatrio va essenzialmente a un manager caparbio, bravo a saper sfruttare al meglio l'esperienza di giocatori all'apparenza troppo in là con gli anni. Si tratta di Tony Waddington, su cui torneremo fra un po'. Lo Stoke City intanto è retrocesso in Seconda Divisione nel 1953. Con Matthews riconquisterà la promozione nel 1963 e due salvezze consecutive negli anni a seguire. Nel 1965 gli arriva il titolo di Cavaliere dell’Impero Britannico per meriti sportivi, (anche qui il primo sportivo a ricevere quest’onore) poi in febbraio l’ultima apparizione in campionato, contro il Fulham, a 50 anni suonati. Un uomo e un calciatore di Stoke. Il più importante ma naturalmente non il solo che ha messo in luce la città dei vasai. Avevamo parlato di Tony Waddington, nato a Manchester nel 1920. Come calciatore toccò quasi 200 presenze con la maglia del Crewe Alexandra, per poi lasciare l'attività agonistica in seguito alle conseguenze di una ferita al ginocchio mentre prestava il servizio militare in marina durante la guerra. Uomo ordinato e attento arriva a Stoke nel 1960 e, dopo la già citata promozione del 1963, focalizzerà la sua attenzione sopratutto su centrocampo e difesa. Costruirà una linea difficilmente valicabile che sarà ribattezzata “Waddington Wall”. Nel 1964 giungerà a disputare la finale di Coppa di lega, ma dovrà arrendersi al Leicester City. In quel Leicester giocava un giocatore che due anni dopo arriverà a Victoria Ground da campione del mondo. Non uno qualsiasi. Uno dei più grandi portieri di sempre del calcio inglese e non solo. Gordon Banks. Uno che se lo guardi capisci che ha sofferto. La vita lo segna da subito. Portatore di carbone, muratore, e nel tempo libero per divertirsi una squadra di minatori che dava calci a un pallone. Ma la sua tecnica non può restare nei campetti del dopolavoro. Ottimi riflessi, freddezza, buona capacità di guidare la propria retroguardia. A notarlo il Chesterfield che lo farà esordire nel 1955, fino a che nel 1959 per 7000 sterline si accasò nella tana delle volpi di Leicester. Nè difenderà la porta per 293 partite. In nazionale protagonista per quasi un decennio vincerà la coppa Rimet del 1966, e sarà protagonista di un episodio passato alla storia. Una parata. Il suo mestiere. Accadde a Guadalajara, nei mondiali messicani, nell'ormai lontano 1970: il nazionale verdeoro Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé, si elevò per colpire di testa un cross indirizzato dentro l'area di rigore dell'Inghilterra dal compagno di squadra Jairzinho, abile a sfuggire alla marcatura di Cooper, il suo dirimpettaio su quella fascia. Era goal. Anzi: sembrava fosse goal. Mentre il fuoriclasse brasiliano stava per esultare Gordon Banks, l'estremo difensore britannico, una volta compreso che non si trattava di un tiro diretto alla sua porta bensì di un traversone schizzò da un palo all'altro, riuscendo incredibilmente a deviare la sfera oltre la linea del campo. "Quando Jairzinho ha calciato il pallone, ho cominciato a indietreggiare verso la porta. Poi ho valutato la traiettoria: era impossibile che qualcuno potesse raggiungerla. A quel punto ho visto Pelé. Sembrava arrampicarsi verso il cielo sempre più in alto, finché ha raggiunto il pallone e lo ha colpito con tutta la forza che aveva in corpo. E io sono andato a prenderlo". Lo Stoke City aveva 109 anni nel 1972 ma la loro sala trofei presentava tristemente più polvere che coppe. E nessuno si sarebbe aspettato di vincere la finale di Coppa di Lega. Al Victoria Ground, Waddington aveva portato per 35000 sterline l'intramontabile e inossidabile George Eastham, centrocampista di 34 anni. Ex Newcastle, ed ex Arsenal. Settanta goal in dieci anni e una battaglia in tribunale per i diritti dei giocatori che all'epoca fece scalpore. Con lui gente del calibro di Mike Pejic, John Ritchie, e Jimmy Greenhoff. Per arrivare alla finale di Wembley lo Stoke impiegherà 11 partite comprensive della storica semifinale con lo West Ham, terminata solo al terzo incontro in campo neutro all' Old Trafford di Manchester e finito 3-2 per i Potters. In finale si sarebbe scontrato con un nome che in quel momento faceva tremare molti: Il Chelsea. I blues inizieranno forte. D'altra parte la squadra di Dave Sexton poteva permettersi gente come Peter Bonetti, Ron “Chopper” Harris, Peter Osgood, e Alan Hudson. Loro che erano espressione di un quartiere alla moda, che portavano basette lunghe e folte e con i pantaloni a zampa d'elefante pulivano i marciapiedi di Fulham Brodway. Ma lo Stoke in contropiede punge subito dopo cinque minuti con Terry Conroy che di testa in mischia porta lo Stoke City in vantaggio. Ovvio, il Chelsea non ci sta e Osgood pareggia le sorti del match proprio in chiusura di primo tempo. Nell'ultima azione del primo tempo. Un goal che moralmente poteva spezzare le gambe. Gordon Banks nella ripresa venne chiamato agli straordinari, con salvataggi cruciali. Ma al 73 ' Bonetti è costretto a una respinta corta sul tiro da centro area di Jimmy Greenhoff scaturito dal cross radente di Conroy. Sulla palla vagante si fionda Eastham, e il vecchio leone mai domo regala il trofeo ai Potters. Su un rinvio di Banks l'arbitro Burtenshaw fischia la fine dell'incontro. E' il momento degli abbracci e della gioia, fra il calore dei migliaia di tifosi arrivati da Stoke, e il momento del giro d'onore tra le bandiere e le sciarpe biancorosse sugli spalti. Sembrava una festa di famiglia scrisse Hugh McIlvanney nel Observer. 



stoke009


Una festa i cui echi il tempo sta allontanando e che sarebbe il momento di rivivere. Vero Delilah?..




di Sir Simon

Nessun commento:

Posta un commento